I libri di Rita Mascialino sono disponibili e ordinabili presso la Cleup di Padova (049 650261, Direttore Sandro Carpanese: tipografia@cleup.it) e presso:

Profondo Pinocchio.

Padova: CleuP Editrice Università di Padova. L'opera è stata qualificata al Premio Letterario di Valenzano 2011.

Arrangiamento in Tre Atti di RITA MASCIALINO della fiaba di Collodi Le avventure di Pinocchio - Storia di un burattino (Piaggi 1883, Firenze - Ed. Giunti 1999, Firenze) secondo l'analisi esposta nel saggio di Rita Mascialino Pinocchio: Analisi e Interpretazione (Cleup Editrice Università di Padova, 2004), Primo Premio al Premio Letterario Internazionale 'Tulliola', Formia 2007.

 

Su Pinocchio Rita Mascialino ha pubblicato il saggio critico (2004) Pinocchio: Analisi e interpretazione (CleuP Editrice Università di Padova) e va costituendo ormai da anni un corpus di studi che appaiono in ogni Numero della Rivista di Analisi del Testo Filosofico, Letterario e Figurativo (Padova, CleuP). Questo suo Profondo Pinocchio rappresentato in chiave drammatica dà un ulteriore apporto all'esplorazione del significato della fiaba di Collodi per il mondo adulto.

Citazioni da Profondo Pinocchio:

Atto I, Scena I (pp. 10-12)

-Pezzo di Pino (il Pezzo di Pino sta fermo e inizia a parlare con voce sottile, da bambino, carina e lieta, come di chi chieda di essere risparmiato): Non mi far male, son piccino e solo! Non fo male a nessuno!

- Mastr'Antonio (con voce sgangherata, di chi è attonito e teme la più tremenda stregoneria o ciò da cui non si può difendere in nessun modo noto): I legni han voce! I legni han voce! O che accade mai? O dove sto? O chi son io? (e cade a terra svenuto, a braccia aperte e bocca spalancata; pochi secondi dopo si riprende, solleva il busto appoggiandosi alle braccia puntate a mani allargate sul suolo, apre gli occhi più del solito e si guarda attorno, sempre in basso): Che m'è successo mai? ... Son tutto tramortito ... Oh, il Pezzo di Pino parlante! ...... Oh (grattandosi pensoso la parrucca) ...
Bah, dev'esser senz'altro qualche bicchiere di troppo durante questa notte eterna ... per non sentire attorno a me sempre quel maledetto buio che mi guardava così brutto e tempestoso come non mai... Ora però l'è tutto passato, mi metto al lavoro ... vo a far la gamba! (si alza a fatica e riprende a piallare leggero e comunque un po' guardingo)

- Pezzo di Pino
(riprende a parlare con voce ancora più carina di prima, come se sorridesse per un certo solletico provocato dalla piallata leggera sul suo corpo): O tu mi fai il pizzicorino! Allora tu se' bono! Vuoi giocare con me allora? Allora ti fo un giuoco io! (e muove appena appena le gambine nel desiderio di giocare)

- Mastr'Antonio (di nuovo spaventato, si fa indietro dalla panca e dal Pezzo di Pino) Ma che succede? Chi mi parla in codesta nova maniera che non ci sono avvezzo io che non parlo mai che con me da solo a solo o con Geppetto in qualche sbornia? (cambia presto espressione e postura generale del corpo, aggrotta le sopracciglia in espressione arcigna, predispone le braccia nella posizione di chi sta per fargliela vedere a qualcuno e si fa cattivo e brutale, con voce prima sospettosa, poi in crescendo di minacciosità): O chi viene mai in hasa mia a hanzonarmi! ... Che ci sia nascosto un bambino in questo Pezzo di Pino? Se tu se' un bambino, ora t'aggiusto io! Ti fo vedere io chi è il più forte! Ti fo vedere io chi è il vecchio Mastr'Antonio! Ora t'ammazzo a modo mio! Ti spacco contro il muro e vediamo se dopo ci hai ancora voce per prendermi in giro! Se resti ancora vivo per parlare! Io di figlioli non so che farmene, mi bastava una gamba di tavolino per appoggiarmici, ma tu non ti sei accontentato, hai voluto troppo e adesso me la paghi! (prende il Pezzo di Pino e lo scaraventa a tutta forza contro la parete nella finalità di spaccarlo e uccidere in tal modo l'eventuale vita che sta in esso, ma il Pezzo di Pino non muore né si rompe, anche se rimbalza duro sul suolo più volte indietro e lateralmente; ai rimbalzi corrispondono forti rumori secchi, come quelli di un legno scaraventato violentemente su un muro e al suolo)

- Pezzo di Pino
(con voce sottile e dolorante per i duri colpi ricevuti sul suo corpo, quasi fra sé e sé): O che tu mi vuoi ammazzare? ... O che mi vuoi ammazzare? Che t'ho fatto? ... Io volevo solo giocare con te! ... O che sono insegnamenti codesti? M'hai voluto insegnare qualcosa? ... M'hai tirato avanti forte per farmi tornare indietro di brutto. Allora non devo andare avanti dritto. Devo prendere le strade laterali e devo scendere come sono sceso dal muro a terra. È questo quello che devo fare? Non mi pare un gran bell'insegnamento questo! Ma mi pare di averlo già imparato, hai tirato così forte che non me lo posso dimenticare! E chi se lo potrebbe dimenticare! Me lo ricordo in tutte le ossa ... in tutta la testa ... Perbacco se sai insegnare ... Ma non m'hai spaccato, io non sono come gli altri bambini, che son tutto zucchero e moine, che i genitori li trattano bene e che si rompono al primo botto, io son già stato maltrattato, tu non lo sapevi, ma io son già pratico di botte da tutte le parti e senza nessuno a difendermi! E son di legno duro io, non m'hai spaccato neanche tu, hattivo come sei! (voce più allegra) Son'ancor vivo per fortuna ... anche se bastonato di brutto. Son vivo perché mi piace vivere (la voce si fa voce rattristata e un po' perplessa) anche se a quanto vedo son sempre tutto solo in mano a grandi che son cattivi con me che non ho colpa di nulla!

- Mastr'Antonio (sbalordito); Allora tu se' un bambino per davvero! (sempre più attonito) Un bambino! Un bambino! Non ti voglio! Non ti volevo! A me bastava una gamba ... [...]

Atto I, Scena VI (pp. 42-43)

- Grillo-parlante (voce come se venisse da molto lontano e non avesse più la forza che aveva prima della martellata; c'è una sua immagine sfocata, solo un'ombra sullo sfondo che si confonde con le ombre detta notte): O Pinocchio, non ti lasciar ingannare dal Gatto e dalla Volpe, son due manigoldi che t'hanno imbrogliato d'uno zecchino ... Non perdere anche gli altri... Torna a casa. Non essere un allocco ... Nessun denaro cresce sugli alberi come le nespole ... hai mai visto una cosa simile? Come fai a crederci? Credi al giusto, all'onesto, non all'incredibile! Il denaro bisogna guadagnarselo con il sudore della fronte! Non te lo regala nessuno, citrullo!

- Pinocchio
(stizzito, di cattivo umore): Ancora tu, non t'ho già ammazzato una volta, maledetto? Vuoi che t'ammazzi di novo? Vattene, sparisci, menagramo! Lasciami godere la vita come piace a me, ricco, riverito e obbedito da tutti! Hai idee vecchie, piccole, da poveraccio qual sei sempre stato e per altro vivevi nella casa di mio padre Geppetto, una miseria da far paura, senza neanche la luce del sole che ce l'han tutti senza pagar nulla! Vattene una buona volta per sempre! Io sarò presto ricco!

- Grillo-parlante
(con voce sentenziante, come profetica, molto lentamente): Allora, che il cielo ti salvi dalla guazza e dagli assassini!

- Pinocchio
(spavaldo): Vecchio barbogio, io non ho paura di niente io ... T'ho già ammazzato ... che vuoi che io tema dagli assassini... Sono uno di loro io oramai, so menare colpi che ammazzano anch'io ... me l'ha insegnato quel vecchiaccìo di Maestro Ciliegia a menar colpi duri da spaccare in mille pezzi, quando m'ha scaraventato contro il muro ...

Le carezze negate.

Padova: CleuP Editrice Università di Padova. Primo Premio al Premio Letterario 'Osservatorio', Bari 2008. Il romanzo ha ottenuto numerosi ulteriori riconoscimenti e qualificazioni.

In copertina: Scorcio di Via dei Savonarola, Padova, Fotografia di Rita Mascialino

Grafica di copertina: Massimo Maltauro
Introduzione:

“Nel romanzo Le carezze negate di Rita Mascialino si intrecciano le storie di tre personaggi la cui visione del mondo appare disegnata sul tessuto delle esperienze dell’infanzia, raccontate in una prospettiva per molti aspetti inconsueta.
Ogni personaggio, in ciascuna delle tre parti di cui diviene protagonista, viene presentato ‘direttamente’ dal punto di vista della propria interiorità, e ‘indirettamente’, secondo angolature diverse, nelle parti restanti, così che si aprono scorci diversi da cui osservare medesimi caratteri e identiche situazioni.
Il piano dei sentimenti informa l’identità dei personaggi e il loro Leitmotiv emozionale.
Ampio spazio detiene la raffigurazione delle dinamiche intrinseche ai gruppi familiari.
Tutto il romanzo si intesse di fine quanto incisivo approfondimento psicologico.
Gli ambienti sono descritti in modo realistico, sempre filtrato dalla personalità di coloro che consumano in essi la loro avventura esistenziale.
Il testo è ricco di persone e di vicende. Gli eventi narrati si dipanano in prevalenza nella prima metà del Novecento e particolare rilievo assumono alcuni episodi che si svolgono durante il crollo del regime fascista.

Le tre parti del romanzo Le carezze negate, suddivise in capitoli, si intitolano rispettivamente: Il firmamento notturno; La principessa nella primavera; Il sacco nero.

Da Le carezze negate (pp. 28-29, Il firmamento notturno):

“(…) Suo padre se n’era andato da circa cinque anni quando Vito giunse da Bari nel Salento, vestito di bianco, con calzoncini al ginocchio, camicia già da ometto con un sottile fiocco di raso nero al collo, scarpe e calzettoni bianchi di filo traforati, gli occhi scuri e fulgenti scrutanti il mondo, i capelli neri e lucidi come la seta, la pelle fiorente ed abbronzata, privo di qualsiasi bagaglio, senza abiti di ricambio, senza nulla tranne l’ultimo resto dell’eleganza di cui lo aveva equipaggiato il grande casato altolocato. Nessun parente venne mai a trovarlo e non vide più per un tempo infinito la bella casa di Via Melo, dove aveva vissuto qualche tempo con papà e mamma, poi solo con mamma, né la grande casa della zia sul Lungo Mare.
Qui era stato abbandonato da sua madre in una notte cupa e ventosa, come una foglia tenera strappata violentemente al ramo dalla grandine più grossa della tempesta più violenta e finita poi a terra assieme a quelle secche, destinata come queste alla ramazza e alla spazzatura, alla dispersione. Le uniche parole della madre erano state l’ordine perentorio e dato per intimorire, con voce compatta, di non muoversi di lì per nessun motivo, un ordine che già tante volte in tante occasioni quotidiane gli era stato impartito e cui sapeva obbedire:
“Lì stattene e non ti muovere finché non vengo io. Io adesso da fare tengo, ma poi torno. Fa come hai fatto sempre, ai giardini, sta lì e non ti muovere per nessun motivo, obbedisci a mammà. E aspetta!"
Se ne andò senza un abbraccio, senza uno sguardo buono per lui che la guardava ad occhi esterrefatti. Sì, aveva sempre dovuto aspettare che sua madre si occupasse di lui e lei non se ne era mai occupata. Anche adesso doveva aspettare, non sapeva bene che cosa, non sapeva del tutto perché fosse stato portato lì a quell’ora. Dopo una lunga attesa in piedi, attaccato immobile alla porta che nessuno aveva più aperto data l’ora già tarda in cui vi era stato collocato, il freddo ed il silenzio della notte ormai cieca reso più solitario e spaventoso dall’antica voce del vento lo avevano impaurito, mamma non sarebbe più arrivata a prenderlo, come aveva sentito nel fondo del suo cuore, e anche l’abitudine, appresa quando ancora non sapeva camminare, di attendere e attendere e attendere mamma non fu più sufficiente a dargli coraggio e fermezza.
In quel nero abbandono, lasciato solo sulla strada ad avere paura e a sussultare ad ogni folata più forte dell’incessante vento pugliese, si era allora messo a piangere sommessamente e si era aggrappato alla porta, forse raspando senza avvedersene e questa si era alla fine aperta davanti a zia Betta in camicia e vestaglia di raso avorio. Sbalordita per aver visto dalla feritoia un bambino e ancora più sbalordita al riconoscere il nipote, ma afferrando subito l’orrido messaggio della madre, una donna da essa mai stimata e mai ritenuta adatta al fratello né alla famiglia, lo accolse dentro asciugandogli le lacrime che scendevano a grossi fiumi in silenzio da occhi bassi e vergognosi. Gli preparò una tazza di cioccolata, senza chiedergli niente dell’evento strabiliante. Lui si era trattenuto dal continuare a piangere e si vedevano i segni salati delle lacrime brucianti vicino a occhi che parevano pezzi di diamante infranti. Stava in mezzo alla cucina ampia e spaziosa seguendo le mosse della zia con il piccolo petto silenzioso ancora scosso irregolarmente come una pianta sommossa dalla coda di un terremoto. Non gli riusciva di mangiare, seduto a tavola, dove su una tovaglia bianca a fiori bianchi arrivarono la grande tazza di porcellana pure bianca, il cucchiaio d’argento e la bella coppa dei tarallini e dei dolci di mandorla. Credeva di non farcela ad inghiottire perché ogni qual volta cercava di deglutire si innescava un moto contrario che impediva la discesa del cibo e quasi lo catapultava fuori, e alla fine la sua mano tremante a scatti fece spandere la tazza così che sporcò la tovaglia immacolata. Balzò in piedi sconvolto per le conseguenze che il disastro che aveva combinato avrebbero potuto provocare secondo lui, abituato ad essere maltrattato per qualsiasi cosa. La zia lo avrebbe mandato via nella notte e lui non sapeva dove andare. A casa non poteva tornare, mamma lo avrebbe cacciato via rimandandolo là dove l’aveva portato. Dagli altri parenti la porta era pure chiusa per lui. Era disperato. Si sarebbe messo tra l’immondizia per non avere troppo freddo, per nascondersi e per non disturbare nessuno e alla mattina l’avrebbero buttato via e lui non si sarebbe potuto difendere, era piccolo e gli uomini erano grandi e non c’era nessuno a fare le sue parti, a dire che non era un coccio rotto e che non aveva fatto niente, a dire che era innocente. Travolto da questa ridda di pensieri dissestanti stava per stramazzare a terra, gli sembrava che sarebbe dovuto cadere al suolo, come una bestia sgozzata. Di fronte alla tovaglia macchiata gli occhi erano sbarrati dalla paura, si sentiva come se avesse commesso un delitto, qualcosa di grave e di irreparabile che gli sarebbe costato il massimo dei castighi (…)”

Il paese disabitato.

Pasian di Prato(Udine): Campanotto Editore.
E’ un volume di undici racconti del profondo, pieni di fantasia e di personaggi come il teatrante smarrito nel tempo dell’omonima Fiaba per Grandi (139), che, fermo nella posa di chi accoglie eccitato gli ospiti nelle serate di gran gala del suo sontuoso e tetro Palazzo del Settecento veneziano, vive negli occhi della visitatrice misteriosa avvolta in un mantello nero, con il suo proprio passato vecchio ormai di secoli e la sua solitaria capacità di amare appassionatamente. Oppure come il proprietario della speciale Casa sull’acqua (117) fatta di raggi iridati e di cristalli e provvista di botola che si apre sul sotterraneo più spaventoso.
Oppure ancora come Orfeo (Primo Premio 'Peter Pan, Gianicolo, Roma 2013), capace di ammaliare gli universi e perduto egli stesso d’amore per una donna bellissima abbracciata dalla pietra e insensibile alla sua serenata.
O come il protagonista Tavi di Coriandoli (19), senza padre né madre e ospite della vecchissima nonna Arreth che lo abbandona anch’essa lasciandolo solo nella sua giovane vita, in mezzo ai fragori del Carnevale in un freddo febbraio fatto di vento, neve gelata e maschere sinistre.
O come...tanti altri personaggi nei più strani paesaggi del mondo della fantasia e dell'inconscio!

Da Orfeo (151)

“(...) e regnò solo il vento e fiori caddero leggeri sul suo tramonto e il suo cuore smise di vibrare e le sue mani non si mossero più e fu come pietra bianca nelle galassie.”

Da Donna donna (83)

Macchie sfocate si lasciavano scorgere alle pareti, una nube più scura stava ammassata in un lontano angolo della stanza, un odore sgradito di cera fusa scendeva dagli alti soffitti a rendere l’aria non del tutto diversa da quella del suo carcere."

“Vedi l’orchestra? E’ per il tuo ballo, con me.”

“Le avevano messo il vestito di broccato nero e argento, le scarpe di seta, tolte le ragnatele e pettinati i lunghi riccioli di ebano attorno al volto esangue e al collo bianco, l’avevano condotta tenendola per il braccio attraverso le scale ripide giù nel salone illuminato a festa.
Ne intravvedeva le luci dal fondo dei suoi occhi spenti dal buio della torre.

Da La casa sull’acqua (117)

“Nelle notti serene, quando gli oceani sospiravano agli spazi assonnati la loro malinconica canzone e la trasparenza delle pareti scopriva il languido desiderio di quelle acque mugghianti, allora saliva nella torretta per non precipitarsi negli abissi a sognare anch’egli e cantare così per sempre la sua serenata al vuoto cosmico.
Un cannocchiale gli portava vicini i palpiti azzurrati di diafane stelle sparse in lontane contrade d i cieli solitari e nulla faceva brillare le sue pupille come lo strascico astrale trapunto dell’orrido incanto di regni inesplorati.
Tanti erano i raggi che custodiva riposti negli angoli più segreti dei suoi occhi che, quando guardava perduto un’onda prossima a scomparire per non tornare mai più, cascate di faville stellate traboccavano luccicanti da palpebre socchiuse a confondersi con quella spuma e divenire per un attimo fluttuazione irripetibile della scentrata iride marina.”

Da L’ombra (131)

“La notte era entrata dai vetri chiusi, fatta di ombre sagomate dal respiro ardente delle braci.
Era arrivata, così gli sembrava, con l’inganno, l’abito nero mimetizzato dal velo dorato del crepuscolo, lo sguardo di tenebra nascosto da squarci di nubi rosse.
Ora lo circondava, ammassata pesante addosso a lui, immobile di fronte ai tizzoni semispenti.
D’improvviso si era tolta la maschera ed era apparsa nel buio, cupa e cieca, con occhi senza fuochi. Disteso, il volto nella mano sorretta dal gomito, cominciava a non conoscere più quello spazio invaso da un ospite non chiamato, che a quanto sentiva lo aveva messo in sudditanza togliendogli quelli che considerava precisi punti di riferimento.”

Risate a mezz'aria.

Milano: Greco & Greco.

Sono quattro racconti satirici che danno un panorama d’insieme e scorci prospettici in profondità del carattere dell’italiano di tutti i tempi, anche di quelli futuri: Cultura e sputacchiere (9), Repubblica di Kazalia (49), Quarto millennio (81), Risate a mezz’aria (103).

Da Cultura e sputacchiere, un racconto che narra la vicenda di un gruppo di ricercatori dell’Istituto del Tempo Perduto impegnato nel Grande Progetto Osterie ed in produzioni molto speciali etc., etc..

“C’è una fattura che non torna! C’è una fattura che non torna!”

“Impossibile! Impieghiamo un sacco di tempo a farle quadrare, attuiamo tutta una serie di operazioni di addizione e sottrazione a livello superiore; quante volte, dopo aver addizionato e sottratto mille volte, dobbiamo ricominciare perché è stata dimenticata una merenda di lavoro consumata in un’osteria non contattata preventivamente, cose che possono capitare quando si è in viaggio.
E la confusione poi con tutti gli scontrini, le ricevute fiscali, i conti eseguiti a mano dagli osti secondo regole che dettiamo noi in qualità di esperti... in fatto di esigenze di contabilità... dell’Istituto, si intende... niente di personale.
A che cosa si riferisce questa fattura che non quadra comunque?”

“Ad una fornitura di quarantotto bottiglie di champagne Dom Pèrignon in conto spese per Bede, Bebe, Bete e Beve.
Dodici bottiglie a testa in una sola serata (...), perché, come forse Bebe, Bete e Beve rammentano, abbiamo invitato il gruppo con cui ci eravamo scontrati nella nebbia, alcuni individui regolarmente autorizzati alla loro ricerca che indagavano su tematiche analoghe al nostro progetto di lavoro. Erano eccitatissimi perché credevano di aver trovato finalmente qualcosa e ci hanno invitato ad un brindisi, naturalmente di lavoro, al quale non abbiamo potuto sottrarci data la motivazione grandiosa: tutti eravamo concordi sul fatto che fosse inevitabile un festeggiamento adatto all’importanza dell’evento.
Ovviamente, sempre per via della rappresentanza del nostro Istituto, li abbiamo dovuti invitare a loro volta ad un secondo brindisi nell’osteria, il quale ha condotto alle quarantotto bottiglie.
Poi purtroppo si è rivelato tutto un abbaglio, non avevano trovato niente come sempre, ma ormai i festeggiamenti avevano avuto luogo, lo champagne era stato regolarmente consumato e i conti dovevano pertanto essere pagati” – dichiarò Bede leggendo nella sua memoria.

“Ma erano proprio quarantotto?”