LA SETTIMA ARTE, Rubrica di Critica Cinematografica a cura di Rita Mascialino in 'Lunigiana Dantesca' CLSD Centro Lunigianese di Studi Danteschi
Il ferroviere di Pietro Germi
di Rita Mascialino
Il ferroviere (1956) è un film in bianco e nero per la regia di Pietro Germi (Genova 1914 – Roma 1974), sceneggiatura di Pietro Germi, Alfredo Giannetti, figlio di un ferroviere e impiegato per un certo tempo presso le Ferrovie nonché autore del racconto Il treno, da cui Germi trasse spunto per il soggetto, e Luciano Vincenzoni; colonna sonora musicale di Carlo Rustichelli. Viene fatto rientrare in generale dagli storici nella cultura cosiddetta neorealista o tardo neorealista, di cui condivide senz’altro la rappresentazione della realtà quotidiana di semplici lavoratori nel dopoguerra. Si tratta di un’epoca che, detto in molto schematica sintesi, stava vivendo il disorientamento conseguente al cambiamento dei valori dovuto principalmente al crollo del fascismo con le sue regole ferree, gli obblighi e i divieti e con l’ingresso del regime democratico della Repubblica. Tale crollo di valori, che erano stati in auge nell’anteguerra, era inoltre conseguenza dell’esperienza di modi di vita diversi introdotti dalle varie culture presenti sul territorio italiano nella guerra, durante la Resistenza e dopo la Liberazione. Contribuirono a tale cambiamento socioculturale anche la presa di coscienza delle atrocità della Germania nazista e di quelle relative alle foibe, nonché del dramma degli esodi delle popolazioni nel nuovo assetto del confine dell’Italia orientale, non da ultimo e non da meno la visione del mondo intrinseca al più libero modus vivendi dei soldati statunitensi. Germi tuttavia non resta chiuso all’interno del neorealismo che gli andava stretto, ma lo supera per il più vasto orizzonte che funge da sfondo ai personaggi, soprattutto lo supera per l’assenza di qualsiasi conformismo delle idee: Germi non partecipa in questo film – e neppure negli altri suoi due capolavori dei tardi anni Cinquanta L’uomo di paglia (1958) e Un maledetto imbroglio (1959) – a canti corali di nessun genere, come verrà mostrato nell’analisi critica qui presentata.
Anticipando alcuni argomenti importanti del film, emergono i grandi temi della vita, primi fra tutti i temi dell’affettività, dell’amore e della morte – temi importanti nel Ferroviere e ancora più esplicitamente dominanti in particolare nelle altre due opere sopra citate –, inoltre l’offensiva sferrata alla sinistra, questo in un’epoca dove la sinistra era in piena ascesa – ciò che fu alla base della critica negativa contro il film di Germi. Germi tratteggia vigorosamente nel film un’angolazione approfonditiva sulla diversa personalità dell’uomo e della donna rispetto alla natura dell’amore, sulla relazione tra padri e figli, sulla famiglia in generale inserendo tali tematiche negli anni della ricostruzione, ma appunto anche di crisi dei tradizionali valori nell’incertezza del cammino verso i nuovi orizzonti sociopolitici e culturali schiusi nel dopoguerra. Germi non era comunista e meno che mai fascista come risulta, a parte le sue dichiarazioni in merito – le dichiarazioni degli autori su se stessi e sulle proprie idee possono essere vere, ma anche false o errate in buona fede –, soprattutto dall’analisi sul piano oggettivo delle sue opere se non ci si ferma ad una critica soggettiva. Nel film non ci sono richiami né diretti né indiretti al fascismo né alla sua ideologia. Per fare un esempio, nel film L’uomo di paglia c’è un esplicito, per quanto indiretto, rimando al fascismo nel nome del cane, Tripoli. Ora il nome Tripoli non si riferisce in particolare nel film alla conquista della Libia nel periodo giolittiano, ma evidentemente al dominio fascista. Il cane muore travolto da un autocarro e con una revolverata che lo finisce mentre sta agonizzante al suolo, ossia il fascismo e le conquiste coloniali, echeggianti nel nome del cane il quale viene ucciso per così dire come un cane, non possono proseguire. Non solo, gli amici del protagonista, parlando di questo cane, dicono ridendo e irridendo che come cane da caccia farebbe disonore anche all’acchiappacani, ossia si tratta di un cane di nessun valore e comunque è e resta un cane, anzi un “bastardone”, cane e bastardo che sono termini che si citano in genere in contesti di totale negatività, appunto un’allusione piuttosto forte contro il fascismo e contro le mete di grandezza, di conquista. Il ferroviere raffigura comunque su di un piano più o meno indiretto proprio l’ambiente politico della sinistra soprattutto comunista. Accanto dunque ai grandi temi esistenziali di cui sopra, intramontabili e comuni a tutti i tempi pur nella diversa sfaccettatura data loro nel succedersi delle epoche e nella soggettività degli artisti che li raffigurano, occupa spazio rilevante e significativo nel film una presentazione indiretta e non positiva della politica attinente al periodo storico connotato soprattutto dall’avanzata e consolidamento delle due fondamentali ideologie di sinistra, del comunismo in primo luogo, ma anche dell’alleato socialismo. Inoltre – ad un lavoro profondo di analisi di ciò che è oggettivamente quanto indirettamente implicito alle immagini e alla loro collocazione strategica nella spazialità della vicenda filmica – è identificabile anche una particolare presentazione della religione come vedremo in dettaglio. Per chiarire il concetto del metodo indiretto nella presentazione della realtà politica caratterizzante i messaggi di Germi: Germi, nella sua critica non affonda la lama direttamente al cuore dei principi dell’ideologia di sinistra, né tanto meno della religione, oggettivamente non si riscontra nel film nessun discorso esplicito da nessuna parte in merito ai principi e neanche ad eventuali partiti o alla Chiesa né tantomeno alla fede. Si tratta di una caratteristica fondamentale della mente simbolica e immaginifica di Pietro Germi che, grazie ad essa, sul piano conscio e inconscio fornisce le sue rappresentazioni di significati non solo espliciti né di sola superficie, ma anche e soprattutto meno visibili i quali strutturano nel profondo e reggono dal profondo lo scheletro concettuale ed emozionale dei suoi messaggi, ciò che rende i suoi migliori film veri pezzi d’arte.
Verranno presi dunque in considerazione in questo studio i tratti essenziali che informano il significato espresso nel film unitamente ad ulteriori dettagli rilevanti tralasciando particolari pure interessanti, ma non di primaria importanza.
Onde circostanziare l’analisi critica dell’opera, precede necessariamente una sintesi a grandissime linee della trama.
Il protagonista Andrea Marcocci, interpretato da Pietro Germi in modo si potrebbe dire insuperabile, lavora come macchinista in prima nelle Ferrovie dello Stato. Vive a Roma con la famiglia formata dalla moglie e da tre figli. È un uomo dai sentimenti estremi, frequentatore assiduo dell’osteria dove si ritrova con i suoi amici, tra cui il suo più caro amico Gigi Liverani interpretato ottimamente dall’attore Saro Urzì e il sor Ugo, il proprietario del locale impersonato altrettanto ottimamente dal caratterista Amedeo Trilli. È impulsivo, capace di dire pane al pane e ormai incapace di illudersi, molto legato ai valori della famiglia tradizionale, che ritiene in linea di massima validi per tutte le stagioni, ossia anche nel nuovo contesto storico nel quale le giovani generazioni si dimostrano più permeabili ai cambiamenti, all’abbandono della tradizione. La figlia Giulia, interpretata da una bella e brava Sylva Koscina, resta incinta senza essere sposata e non sposerebbe Renato Borghi, impersonato da un valente Carlo Giuffré. Pur essendo Renato l’uomo responsabile della sua gravidanza, è più attratta da un altro uomo che sembra amarla di più e si sposa solo perché il padre lo impone a lei e all’uomo che, per così dire, fa il suo dovere senza convinzione, solo per le convenienze sociali, mentre per Giulia tale matrimonio riparatore è fonte di sofferenza mancando in esso, almeno apparentemente, l’amore, soprattutto in lei stessa. Il figlio Marcello non trova lavoro e pare non lo voglia trovare, sembra essere uno scioperato, frequenta brutta gente, gioca d’azzardo, si indebita, tenta di rubare i gioielli della madre per saldare i suoi debiti a malavitosi che lo minacciano di morte se non pagasse. Entrambi i figli si trovano in contrasto generazionale con il padre padrone, violento nelle sue reazioni – caccerà via i figli dalla casa in seguito alla non condivisione dei loro modi di vivere –, un padre tenace nel conservare lo status quo familiare e sociale di sempre, come se tale schema di valori fosse in grado di superare il succedersi delle epoche pur rimanendo sempre uguale a se stesso, ossia non potesse mai tramontare in quanto considerato base della vita in tutti i tempi, questo malgrado i traballamenti in atto sulla spinta del nuovo. Sara, la moglie di Andrea, interpretata magnificamente dall’attrice friulana Luisa Della Noce, è donna che ha alto il valore della famiglia alla quale dedica la sua esistenza e per la quale si sacrifica senza risparmiare energie, subisce gli ordini del marito e talora anche le sue percosse, arriva anche a credere di odiarlo per questo, tuttavia tiene coeso il gruppo familiare, non si ribella, per lei la funzione della donna è quella di moderare la natura violenta maschile sopportandola per amore della famiglia – al proposito, quando il marito va dai Borghi per costringere Renato al matrimonio riparatore, essa, vedendolo partire da casa così adirato e furioso, gli dice appunto come con la prepotenza non si raggiunga nulla. Tuttavia Sara, pur insegnando la non violenza in famiglia, non insegna tout court a subire, al contrario insegna a capire come la violenza porti solo violenza, ossia non è donna debole, come vedremo, anche se dolcissima. Per concludere il cenno alla trama, nella fase finale relativa alla festa di Natale, il ferroviere, che ha subito precedentemente un infarto grave dovuto principalmente all’assunzione ad oltranza di alcol, muore riconciliato con i figli, circondato dagli amici e dagli affetti familiari. Questo per delimitare a molto grandi linee i poli principali della vicenda. Per la parte relativa alla politica, come pure ai cenni sulla religione, si rimanda al prosieguo dell’analisi.
Un chiarimento preliminare riguardante quella parte della critica che considera Il ferroviere un film intriso di sentimentalismi e di valori anacronistici alla Edmondo De Amicis (Oneglia 1846 – Bordighera 1908). Vero è che nel film di Germi sono espressi i sentimenti che stanno alla base della vita, tra gli altri: l’amore, gli affetti, il senso del dovere e dell’onestà, dell’amicizia, valori che di per sé non sono anacronistici né tanto meno sono nel film sviliti a sentimentalismi che rappresentano il falso dei sentimenti. Per abbozzare in merito un solo fugace raffronto con il libro Cuore (1886): Sara non ricatta moralmente i figli come invece fa la madre con il figlio in Cuore. Per quanto riguarda comunque quest’ultimo, oggettivamente tutt’altro che un bel libro, va detto che, perlomeno, non è stato e non è il libro più adatto a formare generazioni di delinquenti e di drogati, di parricidi e matricidi, questo pur con tutti i suoi sentimentalismi.
Iniziando dunque la critica relativa al film, perno centrale della diegesi è la tecnica dell’analessi o flashback che si inserisce qui e là attraverso i pensieri e ricordi espressi con voce fuori campo dal piccolo Sandro, interpretato da un ottimo Edoardo Nevola, personaggio che ha il ruolo di trait d’union degli eventi connotanti la vicenda, ciò che appunto funge da collante delle varie esperienze dei membri della famiglia. In generale le voci narranti fuori campo costituiscono un punto debole e anche debolissimo della rappresentazione cinematografica che non dovrebbe mai servirsi di esse tranne che, eventualmente e del tutto brevemente, nei titoli di testa e di coda, titoli che sono esterni al film vero e proprio. Non è così in questo caso, che è un riuscitissimo esempio di narrazione fuori campo, comunque non eccessiva: i pensieri del bambino costituiscono un modo di comunicazione molto piacevolmente coinvolgente anche grazie alla particolare voce del personaggio, lievemente stonata qui e là e infondente in certo qual modo una disposizione di tenerezza in più.
Quanto alle eccellenti inquadrature che compongono il film, Germi, tecnico espertissimo, dava la massima importanza ai movimenti di macchina, dinamici e veloci, ma anche lenti e lentissimi, ad esempio quando presenta il soggiorno di casa Borghi dandogli grazie al tipo di ripresa l’apparenza di un’immutabilità dagli effetti per così dire ipnotici. Preparava il quadro contenente ogni immagine nei minimi particolari, curava al millimetro le distanze tra le persone, gli oggetti, nonché i passaggi da un’inquadratura all’altra, da una sequenza all’altra sia come montatore, abilità in cui eccelleva, sia con i movimenti stessi, così da dare perfetta continuità e collegamento anche a prospettive diverse e ad eventi diversi. È stato definito da Alfredo Giannetti per la sua straordinaria abilità tecnica con la metafora di artigiano del cinema, da Fellini di grande falegname. Non era né un artigiano, né un falegname per quanto grande. Germi era un artista e un perfezionista quanto a tecniche cinematografiche che dominava ampiamente e di cui si serviva per ottenere i significati che gli interessava esprimere per la migliore riuscita dei suoi film, dei messaggi in essi contenuti – i tre capolavori sopra citati sono densi di idee come pure molti altri suoi film. Ricapitolando: era pignolo per luci, controluci, chiaroscuri, dinamica delle angolazioni all’interno delle sequenze e da una sequenza all’altra, angolazioni prospettiche degli attori, degli spazi, passaggi da un tipo di campo all’altro, in breve: era attentissimo all’estetica delle immagini in tutti i dettagli, estetica che è fattore primario e fondamentale della semantica artistica non solo conscia e di superficie, ma inconscia, profonda, espressa al livello più originario dei significati proprio nelle immagini. Il suo bianco e nero è fornito non solo di bellezza di superficie, ma di significati simbolici profondi. Per fare solo un esempio scelto fra tutte le inquadrature una più bella e significativa dell’altra accenniamo al chiaroscuro in cui Sandrino arriva nell’appartamento dei Borghi dove la sorella sta partorendo, un ambiente in cui non è proprio di casa anche se lo conosce così che chiede timidamente Permesso? per entrare. Il primo piccolo ingresso nell’abitazione è collegato al corridoio la luce del quale tuttavia non lo coinvolge in nessuna misura, come fosse del tutto separato da esso. Una luce bianchissima si introduce con Sandrino dalla porta che il piccolo apre ad angolo acuto, quasi trascinando con sé la luce che non si diffonde nell’ambiente, ma solo al suolo e in parte sulla sua figura quasi sia un’eccezione che il buio pur fitto non riesca ad inghiottire. In tale chiaroscuro segnato dal forte contrasto di oscurità e luce l’unico segno di vita viene portato dal bambino e dalla luce che, detto con un ossimoro, lo segue come ombra luminosa e lo avvolge, il tutto in un’immagine esteticamente e semanticamente preziosa. Sandrino entra in un ambiente senza luce in cui si distingue a malapena o per nulla la spazialità delle pareti, un ambiente che non ispira vita e di fatto la vita che sta per venire alla luce nella casa, viene metaforicamente all’oscurità, nasce già morta. La luce dunque è fuori da quella casa, è dove stava il bambino prima di entrare e il suo raggio si insinua per la stretta prospettiva dell’angolo di apertura. Sul piano semantico intrinseco all’immagine è come se il bimbo avesse l’esperienza di un’oscurità spiacevole, di un contesto che lo impaurisce in quanto appare misterioso anche se appartenente alla casa di Giulia e Renato a lui nota – per altro Sandrino non ha in generale paura del buio, più volte esce da solo di notte senza alcun problema, anche nell’occasione il piccolo percorre il cammino senza alcuna esitazione né tantomeno paura del buio della mezzanotte. Il bimbo dunque squarcia quell’oscurità facendo entrare la luce che lo accompagna dall’esterno quasi proteggendolo nella sua simbologia di vita – il piccolo non chiude la porta, non chiude fuori la luce, la trascina con sé nel buio. La perplessità nell’entrare è, come accennato, indice di paura di fronte ad una situazione inquietante – per altro Sandrino non cerca di accendere la luce, ma resta al buio. Un’immagine che nella magnifica estetica del più perfetto e suggestivo chiaroscuro associa semanticamente la più sinistra personificazione del buio così intenso che il corridoio illuminato e pur non separato da porte dall’ingresso stesso non vi proietta la sua luce. Il buio, di per sé nella sua mancanza appunto di luce, si presta per eccellenza a simboleggiare la morte e in tale buio che spaventa il bambino sta la sensazione inconscia di morte che tuttavia non lo riguarda essendo il piccolo seguito dalla luce – sul significato profondo della morte del bimbo di Giulia e sulla luce che segue Sandrino nell’oscurità tanto fitta si vedano i dettagli esegetici nel prosieguo di questo studio. Successivamente il piccolo entra nella luce del corridoio che appunto non ha cancellato la densa oscurità dell’ingresso e la sua sinistra semantica, semplicemente la lascia alle spalle, ma sempre presente, ossia il corridoio illuminato pare non essere collegato all’ingresso, come se il più simbolico buio appartenesse a un altro mondo e di fatto si tratta di un altro mondo in contrasto con quello della vita, un mondo oscuro e silente e in attesa, appunto all’ingresso, nella saletta d’aspetto per così dire, che nel contesto non risulta essere luogo di attesa di vita. L’avere evidenziato tanto nettamente la differenza tra il vano di attesa e il corridoio quanto a oscurità e luce ha il suo effetto estetico e semantico importante, ribadendo: si tratta di una simbologia che divide nettamente la luce dall’oscurità, metaforicamente la vita dalla morte e nell’ingresso tanto oscuro non sta la vita portata solo da Sandrino che fa entrare la luce con sé, luce che non illumina l’ingresso, ma solo la sua figura e il suolo su cui cammina. Quindi Sandrino viene condotto in una stanza laterale al corridoio illuminata soffusamente e presentata in un movimento lentissimo di macchina, dove gli oggetti sembrano non dover mai cambiare collocazione, quasi nulla possa variare l’aspetto ordinatissimo, fisso una volta per tutte, corrispondente alla personalità dei suoi abitanti, che indirettamente si presentano come conservatori del loro status borghese, di apparenza, una stanza molto diversa da quelle che si trovano nella casa del ferroviere, dove l’ordine è minore e sembra sempre pronto a essere messo sotto sopra, ciò che pure corrisponde alla diversa personalità dei suoi abitanti, più dinamica, più vitale, senza status borghese di rappresentanza da conservare immutato. Nella stanza a luce soffusa le grida di Giulia sorprendono il piccolo, ma non paiono comunque disturbare la quiete e l’immutabilità della sala in cui è stato posto da Renato, nel senso che paiono estranee ad essa, così che non sconvolgono ulteriormente il piccolo che si lascia coinvolgere nella quiete della stanza. Il chiaroscuro sfumato di una quasi penombra e la staticità che contraddistinguono il luogo producono l’effetto migliore per lo sprofondare nell’introspezione, nel ricordo: Sandrino vede una fotografia della sorella e del marito al matrimonio e allora ripensa a scene di vita del passato quasi come in un dormiveglia, come anche la sua spazialità di appoggio della testa e delle braccia al tavolo manifesta mentre rievoca. Questo per dare un esempio dei chiaroscuri di Germi e di come l’estetica delle immagini, nella fattispecie delle sue immagini, faccia parte della più profonda semantica, ossia esprima significati nella loro configurazione più profonda appunto, magari all’insaputa di chi ne usufruisce restando in superficie, talora anche di chi li produce seguendo solo, si fa per dire, il suo gusto estetico.
Un’attenzione molto particolare merita il commento musicale di Rustichelli distribuito nel film con la direzione semantica di Pietro Germi, ossia secondo il significato del messaggio del film. Nel commento musicale si individuano diversi livelli: il ritmo veloce del treno pilotato dal ferroviere, la musica dei titoli di testa e di coda nonché sfondo di eventi nella vicenda, l’aria della festa nuziale e della festa natalizia del finale che resta la medesima per i due eventi. Il ritmo veloce del treno – reso visibile dall’accelerazione della ripresa, come quello di un destino drammatico e ormai immutabile che va serrato verso la meta, fa da pendant al temperamento turbolento e impulsivo, passionale del ferroviere, incapace di frenare il suo impeto che non può che condurre al disastro – per altro un uomo si suicida sotto le ruote del rapido che il ferroviere sta pilotando, quasi una premonizione della tragedia cui va incontro il ferroviere stesso per sé seppure in modalità diversa. La malinconica colonna sonora dei titoli di testa e di coda e durante snodi importanti nell’evolversi della vicenda è in corrispondenza con la triste parabola degli eventi, ma anche con l’interiorità più segreta del protagonista, celata sotto la facciata dell’uomo rude, un’interiorità carica di sentimenti d’amore di un uomo la cui personalità è lacerata da contrasti non agevolmente dominabili. Si tratta di opposizioni che si sciolgono alla fine nella commozione suscitata dall’emersione dei sentimenti più veri, quelli dell’amore per la famiglia riunita attorno a lui, un amore che fluisce senza argini per così dire in una gioia che graverà sul cuore già aggredito dall’infarto portando il ferroviere alla morte. Venendo alla musica relativa alla festa matrimoniale e alla festa finale, essa, come anticipato, è molto significativamente la medesima per i due eventi, tuttavia, pur rimanendo le note le medesime, si avvertono andamenti lievemente ma rilevantemente diversi, ossia l’esecuzione si modifica. Si tratta soprattutto di differenze di tempo: più veloce e meno incisivo l’andamento dell’aria nuziale, leggermente più lento e più incisivo quello dell’aria natalizia, in cui i suoni irrompono portati da una fisarmonica che, nella speciale mescolanza di gioia e malinconia che ne connotano il timbro in generale, indossa in pieno per l’occasione, soprattutto all’inizio, la voce di un dramma incombente travestito di allegria. Germi aveva un senso tragico della vita e quindi un talento artistico particolarmente adatto ad esprimere i drammi esistenziali e nei suoi tre capolavori la gioia, anche gli spunti di comicità sparsi qui e là, non sono disgiunti dalla presenza di un humus di tristezza se non addirittura di tragedia. È come se non fosse possibile nell’interiorità di Germi sperimentare la gioia senza nel contempo associare comunque il suo opposto, come se la gioia dovesse essere scontata con il pianto, come se la vita richiamasse come suo contrario la morte onnipresente e più presente nelle occasioni di gioia, di festa, capaci di far piangere per via dell’unione di felicità e consapevolezza o sensazione inconscia della sua scarsa durata, della sua radicazione in un humus di inevitabile tragedia finale – sulla gioia nel film di Germi stanno alcuni approfondimenti in aggiunta più oltre.
A chiarimento dell’avverbio “significativamente” utilizzato più sopra a proposito della scelta non casuale della medesima musica per due eventi diversi – certo ci sarebbero state altre possibilità che non un’unica musica per connotare le due feste –, si tratta di due eventi di cui proprio la medesima musica sottolinea una loro somiglianza più di quanto risulti alla prima apparenza. I due eventi sono associabili in superficie nella festosità pur di eventi diversi, più in profondità nella drammaticità sottostante di morte: una festa di matrimonio che si celebra per la futura nascita di un bambino e che darà al contrario come frutto un bambino morto, una festa natalizia che termina con la morte del ferroviere. Non è tutto qui. C’è un altro bambino che nasce a Natale, il “bambinello” Gesù citato dal sor Ugo nella sua osteria, il quale nasce vivo sì, ma destinato a morire prematuramente, recante in sé già alla nascita la presenza della morte. Il bambino di Giulia, concepito per così dire nella ventata dei valori nuovi, non porterà avanti tali valori perché morirà sul nascere, ossia per Germi la nuova famiglia non potrà andare avanti o non dovrebbe. Anche i valori rappresentati dalla religione non potranno andare avanti, nell’ottica laica di Germi moriranno perché portatori di valori troppo arcaici, non mai rinnovati almeno in parte. A questo punto sembrerebbe che anche i valori del ferroviere scompaiano per sempre visto che muore anch’egli nella notte di Natale, ma qui c’è una differenza sostanziale: c’è un terzo bambino nato entro i valori rappresentati dal ferroviere e dalla sua famiglia il quale non morirà e porterà avanti i valori del padre – nulla lascia presagire un suo destino di morte prematura ed anzi il chiaroscuro più sopra illustrato mostra come la luce lo segua e lo protegga, luce di vita che ha la meglio sulla più sinistra oscurità. Come mai il ferroviere muoia, rientra nell’impostazione del film che senz’altro commuove e forse fa piangere in una effusione catartica di sentimenti, ma non è strappalacrime. Il ferroviere muore perché non è il suo carattere nella sua componente irosa ad andare avanti, ad avere un futuro, bensì è quello dei suoi figli che, condividenti i suoi principi positivi, non ne condividono il lato iracondo e in ogni caso non sono violenti come lui. Medesima musica dunque per eventi che si compiono in un medesimo destino di morte del ferroviere e dei due bambini – il figlio di Giulia e il “bambinello” –, non per il figlio del ferroviere che ne proseguirà la visione del mondo nel futuro più lontano dal presente, ancora più lontano di quello rappresentato dai fratelli – maggiori dettagli giustificativi in questa complessa simbologia nel prosieguo di questo studio.
Nei vari comportamenti sociali rappresentati nel film, spazio rilevante è dato al comportamento dei grandi verso i piccoli. Sandrino è spesso solo ad affrontare le difficoltà, come quando va a casa di Renato dove Giulia sta per partorire e viene cacciato malamente dall’ostetrica nonché condotto da Renato, per quanto più umanamente, in una stanza con l’ordine di non muoversi, senza che gli venga detto niente a proposito delle grida di dolore di Giulia. Quando viene sorpreso dall’usciere mentre vorrebbe vedere che cosa stia succedendo a suo padre durante la visita medica, viene rimproverato con pessime maniere e minacciato di espulsione. Anche quando si trova in questura per aver rotto il vetro posteriore della macchina del corteggiatore di Giulia con un colpo di fionda, viene trattato dal commissario come fosse un delinquente vero e proprio e non un bambino da redarguire, così che il padre, pur severo nei suoi confronti, chiede al commissario il permesso di portarselo a casa, comprendendo come il commissario stia esagerando e come non sia quella la maniera di trattare un bambino. Di fatto parlerà con lui “da uomo a uomo”, sedendosi sulle scale di casa per non sovrastare con la sua statura il piccolo, per essere appunto alla pari con lui, ossia andandogli incontro e dandogli importanza, abbassandosi lui stesso per essere in certo qual modo alla medesima altezza del piccolo. Andrea Marcocci dunque non è all’antica in senso negativo, non è chiuso al dialogo con i figli come accadeva nell’Ottocento – Germi è stato definito uomo dell’Ottocento da qualche critico – in trascorse consuetudini che invece, in parte, sono conservate proprio nella società attorno a lui, come si constata almeno per i comportamenti negativi di non pochi adulti verso i piccoli. Sono Giulia e Marcello che non dialogano con il padre nella loro ribellione giovanile, non il padre, e per altro il piccolo dialoga con il padre appunto “da uomo a uomo”– il temperamento iracondo del ferroviere non ha a che fare con il suo voler tenere vivi i valori del passato, quelli relativi alla famiglia tradizionale: una cosa sono tali valori, altra è il carattere violento che è fenomeno umano, in particolare maschile, di tutti i tempi. Dopo avere sgridato il piccolo e avere tentato di dargli un ceffone, è aperto al dialogo con lui e anzi vuole ragionare con lui per capire il motivo del suo gesto riprovevole.
Dunque nel film viene mostrato come gli adulti – a parte il gruppo di amici del padre – trattino i piccoli malamente, a partire dall’ostetrica che come donna dovrebbe essere più maternamente impostata verso il piccolo che non sta facendo niente di male e solo guarda verso il luogo da dove provengono le grida di Giulia e come il padre comunque scelga il metodo del dialogo con Sandrino per conoscere la motivazione del colpo di fionda, non per giustificarlo, ma per capire il perché dell’azione, ossia viene mostrato come nei confronti della generazione più giovane il padre dialoghi. Il dialogo è mancato con gli altri due figli che non concordano con le sue idee, con i suoi metodi, ma che sono essi stessi che non hanno parlato con lui, che non gli rispondono neppure, evitano appunto ogni dialogo, mentre parlano con la madre sia perché è donna dolce e comprensiva, sia perché non è lei l’emblema del potere forte, assoluto, quello patriarcale appunto rappresentato nel padre, potere che vorrebbero contestare, salvo a riconoscere successivamente la positività dei fondamentali insegnamenti paterni.
Entrando più in dettaglio nell’analisi dei valori familiari così importanti nel film, si può constatare come la severità e la durezza educativa del padre mostrino molto indirettamente, ma comunque, anche una frangia positiva. Di fatto, nessuno dei figli del ferroviere prende la strada della delinquenza ed anzi Marcello, dopo la sua crisi giovanile in cui stava deragliando dalla retta via – non lavorava, aveva contatti con la malavita e giocava d’azzardo –, proprio dopo avere messo con violenza le mani addosso al padre e dopo essere stato conseguentemente cacciato di casa, assume i comportamenti dell’uomo responsabile. Questo cambiamento di rotta lo deve certo all’amore per la madre, molto presente in lui, ma anche e non proprio poco alle dure maniere del padre che lo ha sempre rimproverato e non dolcemente per il fatto di essere uno scioperato, di non avere voglia di lavorare e gli ha sempre dato l’esempio dell’onestà. È vero, come afferma la madre, che con la prepotenza non si ottenga niente, ma è anche vero che i principi positivi, dettati dal padre spesso pur nell’ambito di esplosioni colleriche, vengono recepiti dal figlio a un certo punto della sua esperienza di vita distinguendoli dai maltrattamenti ed è anche per questo modello che il figlio ritorna sulla retta via, rendendosi conto dei propri errori. Il modello paterno di buoni principi collegato tuttavia a comportamenti impulsivi e violenti è dato anche a Sandrino che lo assorbe spontaneamente per imitazione del padre sia nel bene che nel male: in quest’ultimo ambito si vede come il piccolo reagisca impulsivamente e con violenza contro Renato Borghi e contro il corteggiatore di Giulia, ma si vede anche durante tutto il corso del film come il bambino sia molto sensibile a ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, valori che ha acquisito a casa, dalla mamma, ma anche dal papà a prescindere dalle sue reazioni violente. Sara, parallelamente, è il modello femminile per Giulia e rappresenta la parte dolce dell’educazione dei figli. Invita la figlia accoratamente a comprendere più profondamente le cose e a provare a dialogare con Renato per non chiudere, per non separarsi legalmente, per non disfare la famiglia appena formata e che secondo la sua visione del mondo deve durare per tutta la vita in una sempre più profonda comprensione reciproca e quindi affetto reciproco. Giulia è vissuta lontano dal marito a causa della propria possibile infedeltà e dalla famiglia, cacciata dal padre assieme al fratello Marcello dopo essere stata schiaffeggiata duramente per il rischio che potesse rompere il legame coniugale con Renato, ma il modello per lei è la dolcezza della madre tanto che alla fine capisce i propri errori e rientra con dolcezza anch’essa in un substrato femminile e familiare più tradizionale di buoni sentimenti, di fedeltà, come pure Renato, non violento per sua natura ed educazione borghese, si pente di non essersi sempre comportato bene sul piano affettivo con Giulia e di averla all’inizio della relazione forse spinta involontariamente a cercare affetto e comprensione altrove, si pente anche ricordando le parole di Sara che chiama “mamma” confermando in tal modo di sentirsi pienamente d’accordo con i sentimenti familiari vissuti in senso tradizionale – per altro parla solo con la zia e mai con la propria madre che è figura inesistente come pure il padre, chiusi entrambi nei loro giudizi e pregiudizi borghesi. Anche in questo caso è imprescindibile l’azione della donna nella famiglia, una donna fedele e di buon cuore come Sara, capace di comprendere profondamente la personalità degli altri. Sara tuttavia non è sempre così dolce con i suoi due figli maschi, con cui mantiene un atteggiamento affettuoso, ma all’occorrenza fermo, diverso da quello che manifesta con la figlia che essa sa destinata a sopportare e a moderare il temperamento dei maschi con la finalità di tenere coesa la famiglia nell’amore. Con i figli è anche dura quando lo ritiene necessario, ad esempio quando Sandrino non studia e molto di più quando sorprende Marcello nella camera nuziale mentre è in procinto di rubare i suoi gioielli dal cassetto del comò: nell’occasione non concede nulla al cuore di mamma, bensì si comporta da madre, la sua riprovazione del comportamento di Marcello è totale, se ne va senza guardarlo più in faccia, senza voltarsi, senza rispondergli, mostrandogli solo le spalle. Una nota flash sulla presenza dei cassetti per Sandrino e Marcello, anche per la madre: Sandrino apre di nascosto il cassetto della cucina per nascondervi la pagella negativa, Marcello apre di nascosto il cassetto del comò dove stanno i gioielli della madre per compiere l’azione negativa, per rubarli, cassetti quasi come tombe che conservano segreti che dovrebbero restare tali, che dovrebbero esservi sepolti – la lingua italiana usa il medesimo termine cassa al diminutivo per cassetto, in un caso vengono deposti i morti, nell’altro gli oggetti che si vorrebbero proteggere o nascondere, cassetti come una proiezione esterna dell’interiorità più segreta.
Collegando il cassetto ai gioielli, ancora una parola in aggiunta, come anticipato, sulla gioia. I gioielli si definiscono anche gioie, termine che nella sua polisemia e nel particolare contesto relativo alla protagonista indica non solo che i gioielli siano per la madre preziosi concreti da conservare e motivo di gioia, bensì anche, metaforicamente, come le gioie della vita siano state da essa riposte nel cassetto per preservarle dall’usura del tempo, dalla perdita delle stesse. Si dice però anche che si ripongano nel cassetto i sogni irrealizzabili, in questo caso come Sara abbia riposto nel cassetto le gioie più personali alle quali essa ha rinunciato per la felicità degli altri e di cui voleva conservare comunque memoria. Quando pone le belle catene d’oro sul comò per lasciarle al figlio, rinuncia anche alla memoria più tangibile delle sue gioie, quelle che può aver vissuto nel passato. Dopo aver guardato con rimpianto le sue gioie, chiude con risolutezza il cassetto, ormai vuoto dei suoi preziosi, di cui non resta neanche un concreto ricordo. La donna ideale per Germi in questo film – e anche in alcuni altri – è un essere sacrificale, ossia il suo ruolo è quello di fungere da sostegno morale e affettivo della famiglia, di renderne possibile la vita nel migliore dei modi e questo grazie al suo sacrificio che essa compie anche delle gioie intese in tutti i sensi, contenta solo di vedere fiorire attorno a sé la famiglia, gli affetti più sani, la vita, nulla di illusorio, nulla di egoistico.
La grande maggioranza della critica relativa al film afferma come il protagonista non si sappia adeguare ai nuovi valori subentrati nel dopoguerra e, in linea di massima, come diventi più accondiscendente verso tutti nel finale del film accettando quindi le novità comportamentali dei figli poco prima di morire, senza poter vivere il nuovo corso. Il messaggio del film dice altro, il significato del film è diverso. Come sottolinea il ferroviere stesso con la moglie a festa natalizia conclusa, dopo o durante una lunga malattia e nel rischio di morire ci si accorge, secondo le sue parole, di come sia buona la gente, ossia: questo perché la più vera personalità del protagonista si situa nell’ambito della bontà che l’impulsività temperamentale non può cancellare, per questo la bontà emerge con la malattia, così anche per gli altri suoi amici sinceri. Nel film, comunque, il riconoscimento o l’accettazione del cambio dei valori da parte del capofamiglia non si trova da nessuna parte perché non c’è da nessuna parte – ci può essere nel neorealismo, ma non nel film Il ferroviere e neanche negli altri due grandi film sopra menzionati che come anticipato, pur rientrando in linea di massima nel neorealismo come periodo storico e come dettagli del tutto generici e generali, ne superano di gran lunga i confini piuttosto angusti e spesso stereotipati. Certo, Andrea Marcocci riconosce e si dispiace di essere troppo duro con i figli. Ad esempio, dopo avere schiaffeggiato e malmenato Giulia per il possibile tradimento del marito nonché scaraventato a terra la moglie che la vuole difendere, sta per colpire il figlio con il possente pugno alzato su di lui in un suggestivo primo piano che mostra come il padre gestisca il potere di capofamiglia, duramente, mentre il figlio sta con le spalle al muro, inerme, senza difendersi e senza attaccare. Tuttavia l’uomo si ferma prima di compiere l’azione esecrabile e caccia via a bassa voce i due figli dalla sua casa, sferrando quando resta da solo il pugno, trattenuto all’ultimo momento per non colpire il figlio, contro un armadio, ossia contro di sé, perché si è già visibilmente pentito di avere agito con tanta impulsività e violenza. Questo però non implica che il personaggio rinneghi i vecchi e comunque per lui sani valori della famiglia, per i quali il film spezza la sua lancia, significa solo che si dispiaccia per il suo temperamento impulsivo e violento. In aggiunta: il figlio Marcello, diversamente dal padre, dopo aver visto la madre a terra scaglia i suoi pugni con violenza sulle sue spalle come a volerlo fermare, ma non lo vuole colpire in volto, ciò come segno comunque di un resto di rispetto filiale e neppure lontanamente pensa magari ad ucciderlo per questo. I valori in cui il padre ha creduto e crede ancora, sintetizzati nel modello della famiglia tradizionale, dei buoni sentimenti tutt’altro che deamicisiani e dell’onestà – non c’è nel film una sola parola né alcun fatto che parli o testimoni di valori migliori nel dopoguerra – sono stati assimilati dai figli che, se prima se ne erano allontanati nella ribellione che connota ogni cambio generazionale, li rappresentano in se stessi quando le esperienze li hanno maturati maggiormente, ossia ne continuano l’esistenza pur nei tempi in cambiamento. Indicativo relativamente a questa contestazione giovanile e in parte anche corrispondente a nuovi usi e costumi è il fatto che Giulia rinfacci al padre di non aver capito la situazione in cui l’aveva fatta vivere nella primissima giovinezza, costretta a portare i calzini fino a diciotto anni e il cappotto paterno aggiustato. Questa dichiarazione pare sorprendere il padre al quale forse la figlia non aveva mai detto niente in merito subendo le sue imposizioni. Gli rinfaccia anche di essere stata costretta a sposare un uomo che lei non amava e dal quale non era amata. In questo soprattutto è sintetizzata la contestazione della donna contro il padre nei tempi nuovi, tempi forieri soprattutto di una incipiente maggiore libertà sessuale dei giovani, specificamente delle donne, e di un conseguente possibile sgretolamento della famiglia tenuta in piedi da donne per così dire vecchia maniera. In altri termini e ribadendo, nel film non si tratta di una contestazione radicale da parte dei figli, ma di una normale contrapposizione contro il mondo dei padri rispecchiante sì la nuova generazione, ma non come rivoluzione vera e propria: di fatto, passata la sfuriata, Giulia e Marcello rientrano nei valori tradizionali della famiglia, lasciando perdere il vento di novità cui si erano lasciati andare precedentemente e riprendono i vecchi valori sulla base di sentimenti che riconoscono veri, di comprensione di quelli che ritengono adesso errori commessi in una scelta di comportamenti esistenziali non giusti, non positivi e con volontà di porvi rimedio.
Molto significativo a proposito dei vecchi valori della famiglia tradizionale, è l’arrivo di Marcello nella casa del padre la sera di Natale nel finale del film, quando Sandrino lo tiene per mano e lo tira per farlo entrare in casa visto che Marcello è intimidito e, nell’eccellente interpretazione dell’attore e rugbista Renato Speziali, quasi ha timore della reazione paterna al vederlo come si vergognasse del suo passato, così che stenta ad entrare. Sandrino lo strattona dentro casa e dà subito lietamente la più buona novella al padre relativa al fatto che Marcello non andrà più via, ciò che implica che rimarrà accanto alla famiglia, agli affetti familiari, non disgregherà l’unità della famiglia, i suoi più sani valori. Un Sandrino raggiante dunque dà al padre la novella più importante: i valori della famiglia per come l’ha impostata la madre, ma non poco il padre stesso – è al padre che il piccolo si rivolge –, sono ripristinati, la struttura del gruppo familiare può continuare a sussistere come sempre, come prima e meglio di prima, consolidata e rischiarata dagli affetti, dai buoni sentimenti che ne sono il cemento più resistente alle intemperie. Ed è proprio come se Sandrino rendesse metaforicamente visibile la catena che collega la più giovane generazione attraverso la generazione mediana alla vecchia generazione, indissolubilmente. Sandrino tiene per mano il fratello e per così dire lo consegna al padre, ossia: la generazione più in erba in casa Marcocci consolida non i possibili nuovi valori, ma quelli cosiddetti vecchi, per quanto di positivo in essi c’era e doveva per questo essere conservato anche nei tempi nuovi, non doveva essere soppiantato da non valori per quanto nuovi. Marcello, commosso e come vergognoso della sua precedente poca voglia di fare del bene e della sua azione trascorsa di attacco al padre, nonché anche vergognoso della dichiarazione di Sandrino concernente il suo ritorno a casa, un ritorno un po’ con la coda fra le gambe come per ammettere gli errori precedenti, si riconcilia con il padre pentendosi di avergli messo le mani addosso seppure per difendere la madre buttata a terra nell’accesso di ira furiosa, è anche fidanzato con una bella ragazzina di buona famiglia, figlia di un Capo Sezione, non ha più contatti con il mondo della malavita, ha messo verosimilmente la testa a posto. Mentre padre e figlio si abbracciano stretti in un traboccare di forti emozioni, di perdono reciproco e di amore profondo e commovente, la madre, che già sosteneva il padre accarezzandolo alle spalle per fargli sentire il suo sostegno e la sua vicinanza, abbraccia a sua volta i due uomini e li tiene uniti in un unico semicerchio fatto dalle sue braccia a protezione di Andrea, marito e figura paterna, e del figlio. Marcello la fa rientrare nel cerchio abbracciando anche lei stessa con il proprio braccio che resta comunque all’interno del cerchio formato dalla madre. Come è messo in evidenza nella significativa immagine, la donna forma essa stessa una fortezza che li difende da ogni possibile attacco disgregatore, così che nel nucleo familiare nulla e nessuno possano fare breccia perché lei rende coeso il cerchio, un nucleo di antica origine, forte, più forte che mai, per nulla traballante né in via di mutamento e il figlio la coinvolge anche dentro l’abbraccio suo e del padre, madre che risulta così essere componente fondamentale della famiglia, sua difesa affettiva e sua base. Il mutamento che stava per instaurarsi nei due figli grandi, presentato nel film come per nulla positivo visti gli effetti sulle loro personalità e di conseguenza sulla società, non si è realizzato e questo viene festeggiato nell’abbraccio dei due uomini e della donna. E Sara sempre sopporta Andrea, il suo uomo, perché ne capisce la personalità, irruenta e resa più impulsiva dall’abuso di alcol, ma di fondo buono e onesto. Al proposito, di una certa rilevanza è lo spazio ripetuto che Germi dà alla pulizia personale del suo personaggio, sia in ferrovia che a casa. Si vede piuttosto a lungo come Andrea Marcocci si lavi con cura e vigore, un’azione rimarcata che indica una pulizia non solo concreta ma anche metaforica: dentro e fuori ed è così, il ferroviere viene presentato come persona sì impulsiva e anche talora collerica, ma comunque onesta, pulita. Tornando a Sara e ribadendo, essa non dà spazio a nessun permissivismo: come già accennato, quando scopre Marcello a rubare i suoi gioielli, non si lascia commuovere dall’amore di mamma che essa non interpreta separatamente dall’ambito educativo che le compete, gli dà essa stessa l’oro che gli serve per saldare il suo debito e con ciò evita nel contempo che il figlio compia l’azione disonesta di rubare, ma lo fa come giudice inflessibile, ossia non lo perdona nell’occasione, questa donna di Germi non cede ai sentimentalismi quando si tratta di insegnare l’onestà ai suoi figli. Dopo la morte del padre, Marcello, meno lieto ma ancora capace di sorridere alla madre e anche a Sandrino, torna a vivere con questi e fa il ferroviere come il padre, lavoro che non aveva mai voluto intraprendere in precedenza anche per non seguire le orme paterne, ciò nel clima di insubordinazione che si era instaurato in lui con la maggiore libertà subentrata nel clima del dopoguerra e che appare superato.
Anche il fatto che il piccolo non abbia visto il padre morto risulta essere molto rilevante nel significato più profondo dell’opera. Potrebbe sembrare che i familiari abbiano preservato il bambino dal vedere la triste immagine e senz’altro è anche così in superficie, ma più in profondità e in perfetta coerenza con il messaggio di Germi tale comportamento si rivela segno evidente di quanto il film comunica con tenacia e assiduità. Per chiarire, il padre, di cui si dice che pareva sorridere serenamente, non viene visto morto dalla più giovane generazione della famiglia, perché non muore nella vita futura del gruppo da lui fondato, ossia: nella vita di Sandrino il padre non muore perché i suoi valori, condivisi dalla madre e dagli altri membri della famiglia, verranno portati avanti nella società di domani – il piccolo Sandro, come accennato, rappresenta il futuro più distante dal presente. Ancora: il piccolo non vede il padre, così può ricordarlo da vivo e sarà per così dire sempre vivo in lui con continuità. Di fatto l’eventuale vista del padre morto, rendendone più evidente la morte, avrebbe significato altro nel film, ma non è stato così. Certo, alla madre il giorno non sorride più vista la mancanza del compagno che ha amato con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, ma essa non cessa per questo di tenere i figli legati agli affetti e alle importanti abitudini ad essi collegate: quando Sandrino va a scuola e si dimentica di salutarla perché vuole seguire in fretta il fratello maggiore che lo invita fischiettando il motivetto di intesa conosciuto da tutta la famiglia, lo richiama quasi rimproverandolo di trascurare il saluto e gli dà il bacino che lo accompagnerà nel suo viaggio quotidiano nella società, a scuola, il bacino che rappresenta il legame affettivo, quello che lo abitua ad amare la famiglia, il cui capo ora è essa stessa più direttamente, e a seguirne i principi comportamentali basilari. Lo stesso Andrea, quando il piccolo gli fa visita nell’osteria mentre beve da solo, chiede al figlio in una inquadratura memorabile di dargli un bacio, chiede affetto come segno tangibile di un legame indissolubile. Dunque Sandro va a scuola con il bacino della mamma, Marcello va a lavorare salutando la madre con un sorriso aperto e affettuoso, Renato e Giulia sono tornati assieme e lavorano assieme nel negozio di proprietà della famiglia Borghi, la madre, pur tristissima senza il suo uomo, mantiene intatto il suo ruolo educativo tanto fondamentale per l’individuo e per la società.
Concludendo l’analisi critica relativa ai valori familiari e a più vasto raggio ai valori conseguenti di ambito sociale e politico nel messaggio del film: il finale conferma una volta di più come le idee del ferroviere relativamente allo status quo e comunque al mantenimento e ripristino dei vecchi valori tradizionali con i ruoli di ciascuno in armonia con la natura di ciascuno – così nel film – abbiano la meglio sulle novità che si affacciano nella società del dopoguerra e che, sempre nel messaggio di Germi, appaiono disgregatrici della struttura familiare come colonna portante della società. Le regole non sono imposte da lui che non c’è più in carne ed ossa, ma si tramandano in chi resta, nei discendenti che le accettano e realizzano perché riconoscono in esse un modo di vivere positivo, imperniato sulla potenza degli affetti, sull’onestà, sui ruoli collaborativi sebbene diversi di maschio e femmina, ma senza violenza come si evince dalla modalità dolce di approccio tra Giulia e Renato da un lato e tra Marcello e la fidanzatina dall’altro. Ribadendo: la famiglia tradizionale ha la meglio al di là di piccoli assestamenti epocali inseribili nel suo volto di sempre senza mutarlo sostanzialmente. Una nota sulla voce della fidanzatina di Marcello: la giovane è perfettamente calata nel suo ruolo di dolce compagna, come viene sottolineato appunto dalla vocina straordinariamente sottile e femminile, nonché dall’estrema delicatezza dell’eloquio del tutto distante da un unisex qualsiasi pur nei tempi che cominciavano ad essere diversi.
Passando ora alla presentazione della società fuori dai confini della famiglia, una critica non lieve viene espressa nel film nei riguardi della classe dei medici, di chi dovrebbe avere una funzione di sostegno e aiuto di coloro che si rivolgano ad essi per analisi e controlli dello stato di salute, di cure per la conservazione della vita, più prezioso bene dell’uomo. A proposito della visita medica cui viene sottoposto il ferroviere accusato di bere troppo, ciò per cui non potrà più conservare il lavoro di macchinista in prima – conduceva un rapido –, viene messa in evidenza la mancanza di umanità dei medici e del personale verso il protagonista, trattato come fosse al loro servizio e non viceversa, non avesse quindi diritti, neanche quello al saluto. Quando Marcocci va a consegnare il documento per la visita medica decisa in seguito al grave errore da parte sua di non aver visto un segnale rosso che gli imponeva di fermare il treno, saluta l’impiegato che non lo guarda neanche in faccia, ma non ottiene risposta e gli viene dato con tono infastidito e sgarbato l’ordine di aspettare il suo turno. Il medico dice molto seccamente al ferroviere, dandogli per altro del tu, di smettere di bere senza comunicargli null’altro sul suo stato di salute, né risponde agli amichevoli cenni di dialogo di Marcocci, ossia manca di qualsiasi umanità e anche di semplice educazione, quasi sempre il tono di chi dovrebbe rincuorare il malato è sgradevole, anzi il medico alla fine della visita dice all’oculista “Io ho finito, è tuo”, come se l’uomo fosse un oggetto, un pacco da scaricare come quelli che si scaricano dai treni. L’oculista stesso, pur non aggressivo, evita qualsiasi forma di dialogo, non ascolta propriamente Marcocci che parla mentre lui gli analizza gli occhi. Lo guarda poi con indulgenza e superiorità e quando Marcocci gli chiede come stia la sua salute sperando in una risposta umana che possa confortarlo, la risposta non viene, solo domina il sorrisetto di sufficienza dell’oculista come forma più comoda di silenzio, comunque di totale disinteresse per la persona. Questo tra l’altro per mostrare nel film come i tempi nuovi non abbiano portato miglioramenti democratici nella società, anche mostrino caso mai un diffuso calo di umanità.
La scena di centrale importanza per la più chiara rappresentazione dell’atmosfera politica è quella che si svolge nell’osteria del sor Ugo a tarda notte. Come anticipato più sopra, Germi non attacca direttamente i principi del comunismo o del socialismo, dell’ideologia di sinistra, attacca invece direttamente il mezzo con cui i capi politici che rappresentano tale ideologia hanno raggiunto il potere: l’inganno del popolo attraverso lo sbandieramento dei più grandi ideali umani di giustizia e di diritti, rivelatisi alla prova dei fatti come specchietto per le allodole, mero strumento degli interessi di pochi. Ad un certo punto Marcocci parla dei sindacati, che successivamente compariranno con la loro sigla stampata CGIL CISL UIL in un manifesto che indirà lo sciopero nazionale delle Ferrovie dello Stato. Ne parla mettendo in evidenza la loro disonestà, l’inganno perpetrato ai danni del popolo cui hanno fatto credere che avrebbero rappresentato i diritti dei lavoratori, il diritto alla giustizia sociale. Nel dire ciò il ferroviere di Germi si alza in piedi come in una presa di coscienza del proprio valore: è stato ingannato, è cascato nella rete dei “dritti” che, mentre lui assieme agli altri lavorava per pochi soldi, prendevano la tessera del partito e si arricchivano alle spalle degli illusi che credevano di lottare e fare sacrifici per i diritti del popolo, per gli ideali di giustizia, è dunque stato ingannato, ma in compenso lui può stare eretto e portare la testa alta perché non ha ingannato nessuno, è persona onesta. Anche durante la già citata seduta dei sindacalisti, che annunciano la possibilità della proclamazione dello sciopero generale, Marcocci si alza in piedi per parlare, a differenza dell’altro ferroviere sportellista che parla restando molto visibilmente seduto anche se grida da iroso rivendicando delle migliorie più che giuste, ossia sta in posizione comunque sottomessa. Tornando al monologo del ferroviere all’osteria, interrotto solo da qualche cenno di sincero assenso del sor Ugo, gli altri amici e avventori se ne vanno apparentemente disinteressati a discorsi di ideali nei quali ormai non credono come si trattasse di sciocchezze dimostrando con ciò di essersi rassegnati alla falsità dei loro capi sindacali e politici, nessuna rivoluzione viene neppure pensata. L’attacco più duro e più audace è sferrato dal ferroviere addirittura alla Resistenza che tuttavia non viene nominata direttamente, il ferroviere parla della guerra includendo in essa molto chiaramente la Resistenza, cui allude la presenza dei partigiani. Anche qui Germi espone chiaramente le sue idee divergenti da quelle correnti nell’epoca del neorealismo di impostazione ideologica di sinistra. Il ferroviere aveva combattuto per la Liberazione, per i principi predicati dal partito, aveva obbedito agli ordini di sabotare mettendo a rischio la propria vita, come quando aveva rovesciato il treno assieme ai partigiani mentre dall’alto piovevano bombe, tutto ciò per poi accorgersi che non aveva lottato per i diritti e per una più equa giustizia sociale, per il popolo, ma che aveva lottato per consolidare il potere dei capi e dei capetti, dei furbi, degli ingannatori, lavorando poi per pochi denari, tirando la cinghia e non potendo neanche riparare sé e la famiglia dal freddo dell’inverno, facendo umili lavori in ferrovia prima di diventare macchinista in prima. Anche il sor Ugo ricorda il rischio connesso al sabotare e la fiducia negli ideali, la credenza di combattere per la giustizia, per i diritti, convenendo tristemente con la disillusione di Andrea, questo nella visione del mondo del personaggio di Germi. Non vengono dunque attaccati direttamente i principi teorici del comunismo né quelli del socialismo, ma viene attaccato il fatto che i diritti dei lavoratori e l’ideale di giustizia siano stati adoperati dai comunisti e dalla sinistra soprattutto per ingannare il popolo, questo per quanto viene rappresentato nel film.
Smascherando Germi l’inganno, sembrerebbe che i principi ideologici si possano salvare non essendo esplicitamente contestati, ma di fatto dell’ideologia non resta niente che si salvi, ossia gli ideali usati per ingannare radono al suolo i principi stessi che l’inganno si porta via. Nel finale del film nulla di politico è presente, solo gli affetti familiari quale unico porto sicuro più caro e da salvaguardare, i sentimenti veri d’amore familiare e di amicizia reggono agli inganni, la sfera personale dunque, non politica. Molto rilevante è quanto il padre dice a Sandrino nell’osteria – il ferroviere non era più tornato a casa dopo non aver partecipato allo sciopero generale indetto dalle Confederazioni sindacali e dopo aver visto la scritta sul muro di casa che lo definiva “crumiro”. Sandro era rimasto molto male nel non aver avuto dal padre una spiegazione, aveva tenuto la testa alta nell’attesa della spiegazione che non era arrivata, lo aveva guardato dunque apertamente, senza paura, con fierezza, mentre il padre ne aveva schivato lo sguardo perché si era sentito quasi in colpa di fronte al piccolo. Nell’osteria al contrario il padre dialoga con lui come con un adulto e afferma di non essere un crumiro. Dunque non ha disertato lo sciopero per piccoli interessi personali, ma perché non crede più negli ideali che sono stati il grande inganno. Nell’occasione dà al piccolo quella spiegazione che non aveva dato in precedenza: “Uno si sente importante e poi si accorge che non è vero niente e allora tutto va a rotoli”. Per il ferroviere di Germi gli ideali devono avere un riscontro nella realtà, devono costruire una nuova umanità migliore che in passato, si devono inserire in un ambito di verità e quando diventano strumento di inganno perdono di valore essi stessi mostrando la loro impotenza, così nella visione del mondo di Pietro Germi. E il piccolo lo rincuora dicendogli che l’amico sor Liverani non crede che lui sia stato un crumiro, gli porta dunque la fiducia nella sua onestà da parte dell’amico, dei suoi amici che si ritrovano nell’osteria del sor Ugo. In altri termini: Germi in questo breve dialogo mette in discussione anche il senso del termine crumiro, uno dei caposaldi della propaganda contro coloro che non scioperavano quando venivano indetti gli scioperi dalle confederazioni sindacali dominate dalla sinistra.
Ricapitolando, particolarmente importanti nel complesso messaggio del film sono sia le scene iniziali che quelle finali recepibili per quanto attiene al loro significato sul piano intuitivo inconscio, ma necessitanti di profonda analisi per il livello della piena comprensione conscia. Nelle prime scene si ha l’arrivo del rapido pilotato dal macchinista Andrea Marcocci cui va incontro il piccolo Sandrino, ossia il bambino va a prendere il padre, la nuova generazione va incontro a quella trascorsa per una visibile continuità di intenti presentata a livello iconico. Nella scena finale del film il figlio maggiore esce di casa per recarsi in ferrovia dove continuerà il lavoro del padre e Sandrino continua ad andare a scuola per preparare così il suo futuro anch’esso in continuità con i principi basilari appresi dal padre. Nella prima notte di Natale rappresentata nel film, come più sopra accennato, Giulia partorisce un bambino che, nascendo morto, non potrà portare avanti i valori nuovi che non si inseriscono nella tradizione giudicata nel film come più sana dei costumi caratterizzanti il dopoguerra – è stato concepito fuori dal matrimonio da una donna per così dire, all’epoca, moderna, che non avrebbe voluto sposare l’uomo padre di suo figlio e da un uomo che non l’avrebbe voluta sposare. In tale notte di Natale, come accennato, il sor Ugo cita la nascita del “bambinello” Gesù che è destinato anch’esso a morire anzitempo e quindi, secondo la visione del mondo di Germi, impossibilitato in prospettiva a portare avanti il messaggio religioso. Emerge dunque molto chiaramente, si fa per dire, il collegamento delle due feste natalizie, incentrate entrambe sulla nascita di Cristo che morirà tuttavia prematuramente, nonché collateralmente sulla morte del bambino di Giulia e sulla morte del ferroviere.
Tuttavia vi è una differenza sostanziale: il ferroviere ha chi porterà avanti la sua visione del mondo, ossia i suoi figli, in special modo il suo bambino, Sandrino, che appare destinato a vivere e che comunica al padre come tutto sia tornato come prima, secondo i desideri di quest’ultimo. È come se il ferroviere avesse assolto il suo compito, quello di porre i suoi discendenti su quella che ritiene essere la retta via, non coincidente con le vie dei tempi cosiddetti nuovi, e lasciasse libero il cammino per le più giovani leve, messaggio questo espresso in un capolavoro di opposte e complesse corrispondenze semantiche. Germi cela la sua critica alla religione come ideologia di potere – non alla fede – in dettagli rilevabili solo con profonda analisi, quasi non volesse esprimere troppo apertamente una tale critica e nel contempo non potesse rinunciare ad esprimerla – l’arte, di qualsiasi genere essa sia, proietta la personalità degli artisti, la loro visione del mondo, inevitabilmente, consciamente o inconsciamente, per dirla con una metafora presa dallo scrittore della Monarchia Danubiana Joseph Roth nel romanzo Das Spinnennetz, “La ragnatela”: ciascuno è prigioniero della propria ragnatela da cui non può uscire per quanto tenti o creda di farlo. Germi sottolinea inoltre ancora una volta di più come i nuovi valori non siano in grado di strutturare positivamente la società – il bimbo di Giulia nasce morto, non potrà portarli avanti –, mentre proseguono quelli per così dire tradizionali – Sandrino è più vivo che mai ed è frutto di un matrimonio per amore che ha retto e regge alle inevitabili intemperie, porterà quindi avanti i valori in cui crede il padre. Il peritesto del film risulta del tutto coerente con l’interpretazione in questione: Il ferroviere è dedicato alla figlia di Germi, Linda, ancora bambina, il futuro essa stessa, similmente a Sandrino, entrambi figli di Germi come uomo e come regista.
Per chiarire ancora l’impostazione ideologica di Pietro Germi, segue qui una comparazione con qualche tratto fondamentale dei film relativi a don Camillo e Peppone, diretti dai registi Julien Duvivier, Carmine Gallone e Luigi Comencini. Nel 1946/48 erano stati pubblicati i celebri episodi di Giovannino Guareschi imperniati sulle gesta dei due protagonisti. Dal ’52 in poi è stata realizzata anche la serie spassosissima dei film liberamente adattati secondo i racconti. In essi, prudentemente, non solo non vi è alcuna critica profonda né ai democristiani, né alla Chiesa, né ai comunisti, né ai socialisti, né a nessuno, bensì i due protagonisti, il prete e il sindaco, sembrano essere costruiti appositamente per dare un’opinione amichevole delle due ideologie che non appaiono opposte se non per piccoli screzi infantili presto superati. Tali racconti e film erano finalizzati ideologicamente a fare accettare in una coesistenza possibile, un po’ in un Embrassons-nous, Folleville, la lotta sociopolitica e di classe, cui veniva data la connotazione dell’inoffensività, nella fattispecie vi era in essi una sorta di preparazione al consolidamento dell’alleanza tra Chiesa e comunismo-socialismo su cui non interessa qui nessun giudizio politico, essendo l’ambito a disposizione di questo studio quello della critica semantica letteraria, cinematografica, artistica. Ben diversamente dunque in Pietro Germi, dove la critica politica, seppure non affatto esaustiva del messaggio del film, va essa stessa più audacemente in profondità e, condivisibile o non condivisibile, comprende, come accennato, un giudizio negativo sulla Resistenza in aggiunta all’opinione negativa sui sindacati e sulla stampa di sinistra, come si trattasse di qualcosa di falso, fatto ad arte per indottrinare il popolo e per rendere possibili le carriere dei “dritti” secondo la denuncia di Germi. In merito, ad un lettore del quotidiano L’Unità, la cui prima pagina è inquadrata molto visibilmente, il barista dice come non sia il caso di dare retta a quel giornale che stamperebbe solo panzane.
Al termine dell’analisi di critica semantica del film nei suoi principali contrassegni, un Leitmotiv drammatico, anzi tragico: il vino, bianco come l’acqua, sparso a misure di litri e mezzi litri in bicchieri vuoti e semi pieni, il tutto ammassato in gran numero nei tavoli dell’osteria del sor Ugo, dove il ferroviere passa molte serate assieme ai suoi amici. Sarà la causa primaria della sua morte. Germi mette in evidenza le bevute fatte in compagnia in mezzo agli allegri e quasi fanciulleschi canti accompagnati dalla chitarra del ferroviere: canti e bevute che sono la manifestazione dell’amicizia di lavoratori che trovano in essi una forma di calore umano che non c’è nelle visite mediche, nelle riunioni sindacali, talora nella famiglia stessa quando investita dal vento nuovo. Qui, come abbiamo visto già più sopra a proposito della gioia in Pietro Germi, il richiamo della tristezza accanto alla gioia non potrebbe essere più evidente: allegria dello stare assieme in amicizia e alcol che condurrà il ferroviere alla morte, come anche nel finale del film: gioia dell’amicizia, degli affetti più veri, amore del ferroviere per la moglie Sara per la quale poco prima di morire suona la sua serenata, un amore profondo unito alla buona disposizione verso di lei, unito al riconoscimento del suo valore, e successiva a questa felicità la morte, annunciata con l’infarto verificatosi dopo la riconciliazione con gli amici dal sor Ugo e realizzata con il secondo infarto subito dopo la gioia della riconciliazione con tutta la famiglia nella notte di Natale, come se la gioia durasse solo un momento e richiedesse di essere pagata a così caro prezzo. Lasciando a ciascuno la libertà di espressione imprescindibile in una cultura democratica, vorrei inserire una digressione sulla critica in linea di massima negativa che Germi ebbe per la sua posizione politica non di sinistra – per altro neanche di destra –, una critica che in questo studio come nei prossimi, non si condivide affatto. Come si può constatare leggendo tali critiche, si tratta in generale di giudizi politicizzati ed emessi non su base oggettiva, in genere di ambito esterno ai suoi film. Ad esempio, ci fu chi criticò il ferroviere come personaggio perché non gli era stata data consapevolezza della lotta di classe, uno degli ideali che secondo Germi erano stati strumento di inganno per altro, una critica comunque non solo non centrata, ma esclusivamente politica e che riguarda gli operai quasi rappresentassero un genere a parte, impegnati come mezzi della lotta di classe – o, secondo Germi, strumentalizzati nel consolidamento del potere di classe. Gli fu rimproverato di avere dato vita a un ferroviere di stampo borghese, di nuovo come se gli operai dovessero essere come li voleva il partito. Ci fu anche chi, come ad esempio Alfredo Giannetti, suo stretto collaboratore in molte sceneggiature, mise in evidenza addirittura sue caratteristiche fisiche negative, che qui non si citano, in un’intervista. È senz’altro vero, Germi non era un bell’uomo, ma credo che Giannetti, magari senza volere, abbia raggiunto con ciò la detrazione più squallida. Giannetti era di ideologia comunista e nella sua intervista post mortem, da lui rilasciata su Germi, (https://www.arums.org/no_subet e/2007/02/08/alfredo-giannettisu-pietro-germi/)
sembrerebbe che facesse tutto lui stesso e che Germi fosse addirittura solo uno che eseguisse i suoi ordini, i suoi consigli visto che, secondo Giannetti, Pietro Germi non era un creativo, ma uno che si appropriava di idee di altri. Che Germi, sempre il primo nelle sceneggiature cui collaboravano anche Giannetti e diversi altri sceneggiatori, fosse il principale artefice e curatore delle sceneggiature per le parti rilevanti, è evidente. Al proposito, basta citare anche solo il fatto che non eseguì, tra l’altro, l’idea di Giannetti di far finire L’uomo di paglia facendo gravare la colpa solo sul marito a fronte di una moglie che non ne sapesse nulla degli eventi gravi in cui era coinvolto lo stesso. Giannetti evidentemente non sapeva che cosa volesse mostrare Germi nel suo film, non lo aveva capito, come può per altro accadere: l’uomo di paglia è di paglia perché non sa portare responsabilità in generale e tanto meno quella della colpa grave, del rimorso per il suicidio dell’amante, che deve scaricare sulla moglie confessandosi e chiedendone il perdono, un po’ come nella confessione ecclesiastica che dà l’assoluzione per tutti i delitti senza che chi confessa la sua cattiva azione debba renderne conto in qualche modo.
Per chiarire: credo che Giannetti come critico di Germi, così come tanti altri, non sia andato in profondità nel significato del messaggio che Germi voleva offrire e ha offerto nei suoi film curando per questo i minimi dettagli delle immagini esattamente per come li voleva lui, perché significassero quello che interessava a lui di significare. Giannetti fu bravissimo e utilissimo, assieme agli altri sceneggiatori, per creare il canovaccio, per così dire, bruto su cui Germi innestava poi la sua arte densa di significato. Per altro anche il giudizio di Giannetti sull’attore Saro Urzì (Catania 1913San Giuseppe Vesuviano 1979) è forse, si permetta l’opinione, troppo pesantemente negativo: Urzì come attore viene definito “l’ultima ruota del carro”, giudizio che qui comunque non viene condiviso, questo sulla base delle sue ottime interpretazioni nei film di Germi per le quali ottenne diversi Premi, diverse nomination, diversi Nastri d’Argento come migliore attore.
Una ulteriore critica negativa sempre proveniente dall’ambito esterno al valore dei tre capolavori di Germi – con il termine capolavoro mi riferisco sempre e solo ai tre capolavori sopra citati, non ad altri film di Germi per intenderci e certamente non a Serafino –, deriva dal fatto che nei film interpretasse egli stesso la parte del protagonista.
L’interprete del film Il ferroviere, secondo il produttore Carlo Ponti, sarebbe dovuto essere Spencer Tracy, che avrebbe senz’altro interpretato eccellentemente la parte di un ferroviere americano, certamente non quella di un ferroviere italiano. Alla fine dopo tanti dubbi di Germi dovuti, pare, ai suoi tic nervosi che Giannetti sottolinea nell’intervista e che non si adattavano ad una recitazione, Germi, sostenuto in questo, pare, proprio da Giannetti, interpretò di persona il ruolo che lo consacrò sorprendentemente attore straordinario – durante la recitazione Germi aveva perso e perdeva i suoi tic – e per interpretare il quale, dietro il quantomeno discutibile e comunque strano consiglio di Giannetti, ingrassò notevolmente. Ci fu dunque chi disse che proprio nei tre capolavori interpretava sempre solo se stesso. A onore del vero occorre sottolineare come Germi fosse persona capace di andare in profondità nei recessi della personalità umana, capace di andare oltre le semplici consuetudini interpretative accademiche. Per altro il film ebbe grande successo in contrasto con le critiche negative e tale successo fu dovuto anche e in misura non piccola alla sua eccellenza di attore. Occorre sottolineare in aggiunta come Germi fosse capace non solo di dirigere gli altri stando dietro la sua macchina, ma di dirigere anche se stesso pur essendo nel contempo attore, qualcosa di non semplice o quasi impossibile, ma in cui Germi eccelleva.
Concludendo il cenno alla critica negativa su Germi, leggendo sue frasi relative a problemi inerenti, tra l’altro, alla critica, alla situazione culturale e sociopolitica in Italia, all’arte cinematografica, emerge l’identità di una persona senz’altro dal carattere difficile, poco malleabile – non concordo tuttavia per nulla con il fatto che secondo qualche critico fosse anarchico, i suoi tre capolavori, lasciando perdere tutto il resto, non manifestano e non contengono nessuno spunto anarchico, tutt’altro –, ma fosse persona intelligentissima e creativa fino alla genialità, un regista attento ai minimi particolari delle immagini che per lui venivano a comporre il significato dei suoi film, una identità molto diversa da quanto appare dalle critiche che lo definiscono persona ottocentesca o che fuggiva gli intellettuali o addirittura che sfruttava le idee degli altri. Un po’ come successe a Ignazio Silone che osò criticare dall’interno – era iscritto al partito comunista – il comunismo, così che venne detratto e offeso ignobilmente da coloro che non potevano accettare nessuna critica entro le coordinate della loro ideologia, così che alla fine pagò la sua libertà di idee e la sua buona fede, pur profondamente e veracemente a favore di un comunismo rivoluzionario, con l’espulsione dal partito e con il dileggio delle sue opere che invece furono successivamente riconosciute di notevole spessore.
Per concludere questa analisi critica del film Il ferroviere, segue un’opinione di Pietro Germi sull’arte riportata da un critico a lui favorevole, Fernaldo Di Giammatteo, appunto critico cinematografico, storico del cinema, anche attore. Afferma Di Giammatteo ricordando Germi: “Negando di essere un ‘neorealista’, egli [Germi] ha inteso, più che sostenere una posizione personale, ricordare che le ragioni dell'arte sono altra cosa dalle correnti o dalle tendenze troppo precipitosamente nate, che la piatta registrazione della realtà non ha alcun significato estetico, ma è addirittura impossibile per poco che la personalità del regista riesca a lasciare il segno della sua esistenza".
Un giudizio su cui non si può che concordare. Si tratta di un concetto profondo che va ben oltre la superficie delle idee, soprattutto si colloca contro il conformismo delle idee che non faceva parte della personalità di Pietro Germi e che dà ragione della sua grande arte cinematografica nei tre capolavori citati in questo studio, ai quali si aggiunsero alcuni altri ottimi film nel genere della commedia all’italiana da lui creato e che tanta fortuna ebbe e ha ancora.