Rita Mascialino, "L'invidia e la sua collocazione nel crimine estremo"
Invidia, invidio-invidiare, dal latino invidia, invideo-invidere. Prima di trattare della presenza dell’invidia nella generazione del crimine, diamo spazio ad una introduzione chiarificatrice sul significato del termine, dei termini.
Molteplici sono le interpretazioni del significato di questo concetto fino a confonderlo con il significato della gelosia. Come mai questa frequente e quasi costante confluenza di due termini e concetti così diversi in uno solo, quello della gelosia? Perché l’invidia si riferisce ad un referente che farebbe immediatamente emergere allo scoperto l’inferiorità dell’invidioso, inoltre e soprattutto perché essa suscita spavento dato il suo collegamento profondo con l’odio per coloro che per vari motivi sono considerati come migliori così che si tende a mascherarla eufemisticamente: l’invidioso la maschera sotto altre fogge per poter agire per così dire non riconosciuto, l’invidiato cerca per il possibile di allontanare l’invidia degli altri nei suoi confronti sfumandone la vera, pericolosa e temuta natura, come spesso si fa con le malattie mortali che si chiamano con un nome diverso appunto per esorcizzarle.
La gelosia ha a che fare con il latino zelum, per restare nella derivazione di casa nostra, e riguarda la sfera della passione nell’agire, dell’emulazione e della volontà di superare gli altri in bravura, per estensione riguarda la sfera dell’amore, della rivalità in amore, in generale della brama nel possesso di cose – o persone – che si ritengono proprie e che non si vorrebbero perdere. Si tratta di un concetto verso il quale si ha molta tolleranza, al punto che è in generale accettato che essa sia la fonte di azioni estreme – torneremo fra poco sulle motivazioni di tali azioni estreme. In ogni caso il geloso può essere nel contempo anche buono, ossia la gelosia non esclude in linea di massima e di per sé la compresenza della bontà nella personalità del soggetto geloso, ciò che non accade per l’invidioso cui la condivisione della bontà toglierebbe proprio la presenza dell’odio.
Ma l’invidia non va confusa nemmeno con la competizione, dal latino cumpetere composto della preposizione cum, assieme a, e del verbo petere, dirigersi verso qualche meta, quindi andare assieme verso la meta, situazione psicologica in cui ciascuno vuole gareggiare con l’altro per dimostrargli che egli stesso è bravo o più bravo o che può raggiungere la meta prima o meglio di lui e simili. Nella competizione non si agisce propriamente con l’intenzione di danneggiare l’altro, ma per superarlo in una gara fatta in primo luogo di abilità che colui che compete sa o crede di possedere anch’esso, ossia nella competizione vale popolarmente il detto vinca il migliore, l’esatto opposto di quanto vale per l’invidia, dove il migliore non deve vincere, ma deve essere posto con ogni mezzo illecito nella situazione di perdere a vantaggio di chi non è migliore.
L’invidia riguarda in prima istanza la consapevolezza di essere inferiori ad altri più intelligenti, più ricchi, più belli, più fortunati, si tratta di un sentimento che si incentra sull’inferiorità dell’individuo invidioso. Nella vita quotidiana si viene costantemente in contatto con persone che invidiano chi è migliore e, anche se non migliore, invidiano chi potrebbe essere migliore o ritengono migliore – l’invidioso vorrebbe essere egli soltanto a detenere un livello di prestigio e teme chi possa non solo raggiungerlo e magari anche superarlo, ma anche chi abbia qualche merito, qualche riconoscimento anch’esso. Come anticipato, l’invidioso non può essere nel contempo anche buono, ossia l’invidia esclude in linea di massima e di per sé la compresenza della bontà nella personalità del soggetto invidioso, questo per il suo inevitabile e immancabile collegamento con l’odio ed è per questo che, consciamente o inconsciamente, si ha paura dell’invidioso e lo si evita per il possibile, si temono cioè i suoi colpi bassi di varia portata, sempre comunque pericolosi e nocivi. Secondo la legge che regola la formazione dei gruppi l’invidioso si allea con quelli come lui, con gli invidiosi, con coloro che sono inferiori agli altri, all’altro e condividono la meta di danneggiare i migliori, il migliore. Quando ad esempio, per citare l’invidia dell’intelligenza altrui, un individuo più dotato di altri dal punto di vista intellettivo perviene in un ambito lavorativo – ufficio, scuola, università per fare qualche esempio a campione per tutti gli altri ambiti, anche i più modesti di per sé –, gli invidiosi si coalizzano e attuano nascostamente azioni per danneggiarlo e così eliminarlo. In altri termini, l’invidioso sa che non può superare le eccellenze dell’altro e si dà da fare per danneggiarlo usando i mezzi in suo potere, soprattutto, se resta fuori dall’ambito del crimine estremo, la calunnia con la conseguente diffamazione e detrazione, ciò nella speranza di trovare chi presti fede alle sue calunnie e così elimini il migliore chiudendogli tutte le porte. In una società che si basa su caste formate in questo modo, una società non meritocratica, l’invidia di chi è inferiore e di chi teme la competizione fa la parte del leone nella prassi sociale.
Quanto all’etimologia, il sopra citato termine latino di derivazione, invidere, è composto della preposizione in + videre, guardare contro, quindi guardare da nemico chi è migliore per il solo fatto che è migliore e fa ombra al mediocre, preparandosi per così dire ad andargli contro – l’invidioso agisce contro chi considera il migliore anche se questo non fosse tale. Ricordiamo al proposito che i compagni di scuola di Pinocchio, al momento il primo della classe, lo inducono a marinare la scuola per andare a vedere il pescecane e quando Pinocchio si accorge che non c’è nessun pescecane e che è quindi stato ingannato, essi gli dicono esplicitamente che gli hanno fatto mancare la lezione per farlo diventare come loro, l’ultimo, questo perché la sua bravura li faceva sfigurare rendendo evidente la loro inferiorità, ossia: perché sono invidiosi, non competono perché non ne sono in grado e solo danneggiano il migliore per quanto possono. Lo vediamo per altro nella vita di tutti i giorni: se c’è un individuo che pare più intelligente degli altri, viene solo per questo eliminato dai meno dotati che fanno lega fra di loro e con capi invidiosi e meno dotati come loro – un capo intelligente, non invidioso, non si attornia di incapaci e di invidiosi, ma di individui intelligenti, mentre un capo non intelligente si serve dei mediocri, degli invidiosi che lo aiutino con le loro mene a tenere a freno, a ostacolare il passo del più intelligente.
Lasciando ora l’ambito della norma quotidiana e venendo all’annunciato ruolo che l’invidia gioca nella generazione del crimine estremo, l’omicidio, essa vi ha una grossa parte, da protagonista - molte statistiche l'invidia è messa al primo posto negli omicidi - o da coprotagonista, ossia è comunque motore principale del crimine. A monte di molti omicidi sta proprio l’invidia covata contro chi è migliore o può essere tale o è considerato tale. Molti omicidi ascritti, superficialmente e non sempre in buona fede, a cause diverse, sono in realtà ascrivibili di fatto all’esplosione dell’invidia. Prendiamo come esempio i femminicidi: nessuno di essi è mai stato ascrivibile alla gelosia, bensì è motivato dall’invidia. Di che cosa? Della libertà della donna di autodeterminarsi, di scegliere il proprio destino senza esserne impedita dall’uomo, un destino magari prestigioso come carriera, successo e simili, un destino che l’uomo mediocre non vuole lasciare a disposizione della donna perché non sopporta di sentirsi ad essa inferiore o alla pari, così che giunge per la sua inferiorità rispetto alla donna ad ucciderla adducendo come motivazione la gelosia, addirittura l’amore – che per definizione non coincide mai con l’odio e neanche con l’invidia per altro – , senza che venga citata la vera e reale quanto nascosta motivazione: l’invidia paranoide, arma di grande potenza. L’uomo che uccide la donna perché essa lo vuole abbandonare, magari essendosi accorta di non essere amata e della cattiveria del compagno – perché l’invidioso è una delle epifanie del cattivo, della cattiveria –, la uccide appunto perché non accetta il proprio spodestamento da padrone assoluto della vita della donna, come in un recente passato, a persona inferiore che deve subire un rifiuto, ossia il potere acquisito dall’altro, dall’altra nello specifico. Ma allora la gelosia non è causa di omicidio? Certamente no. L’uccisione per infedeltà o per abbandono non ha a che fare con lo zelo - da cui zeloso o geloso, gelosia -, con il desiderio di trattenere la persona per sé: l’omicidio espropria il tradito nel modo più irrimediabile, esso solo dimostra che sono in opera la vendetta per la condizione di inferiorità in cui il tradimento ha posto il tradito e l’emersione dell’invidia della conquistata o riconquistata libertà dell’altro. Il cosiddetto delitto d’onore tutto aveva fuorché la gelosia come movente e se può essere considerato un delitto passionale, si tratta della passione dell’odio intrinseca all’invidia non all’amore che, come accennato, non ha in sé nulla da spartire con l’odio e l’invidia. L’umiliazione che deriva da un abbandono o dall’infedeltà del coniuge rientra oggettivamente nel 'guardare contro', nell’odio che si scatena nell’essere sottoposti all’umiliazione sociale e nell’invidia per dover accettare che la donna si costruisca il suo destino liberamente, dall’invidia delle possibilità che si aprono alla donna abbandonando essa l’uomo che le impedisce di vivere come preferirebbe. La motivazione dichiarata che la donna infedele o che comunque abbandona l’uomo non possa essere di nessun altro, non è dettata dalla gelosia, ma solo ed esclusivamente dall’invidia della sua libertà di autodeterminare la propria vita. Questo in generale nei femminicidi e nelle cosiddette tragedie della gelosia. La contessa Pia Bellentani uccise Carlo Sacchi davanti a tutti, non per gelosia, ma perché non più in grado di sopportare l’umiliazione cui l’uomo l’aveva esposta irridendola di fronte alla società per essersi essa affezionata mentre lui non era stato coinvolto altro che nel sesso, ossia l’aveva strumentalizzata per il suo piacere senza coinvolgimento affettivo e dimostrando in questo modo la propria superiorità nei suoi confronti, appunto deprezzandola e facendo emergere la sua debolezza. Essa lo uccise premeditatamente per invidia della superiorità dell’uomo in ambito sessuale, nei suoi confronti, invidia che le fece compiere il grande passo, grazie al quale non aveva più ragione di essere invidiosa: l’uccisione l’avrebbe posta e la pose in un livello di superiorità per così dire insuperabile, definitivo, immutabile.
E così via con le innumerevoli e variegate sfaccettature dell’invidia cui tanti delitti estremi fanno capo nascostamente, in profondità, ammantandosi spesso o quasi sempre di motivazioni di copertura, di superficie che escludano l’aggravante della premeditazione che sempre, senza eccezioni, affligge i delitti attuati per invidia.
Rita Mascialino