LA SETTIMA ARTE, Rubrica di Critica Cinematografica a cura di Rita Mascialino in 'Lunigiana Dantesca' CLSD Centro Lunigianese di Studi Danteschi
LA LISTA DI SCHINDLER di Steven Spielberg
di Rita Mascialino
Il film Schindler’s List (1993), per la regia di Steven Spielberg, sceneggiatura di Steven Zaillian, uscito in Italia come La Lista di Schindler nel 1994, fa riferimento ad alcuni degli eventi principali presentati dallo scrittore australiano Thomas Michael Keneally, pluripremiato per le sue numerose opere documentarie, nel romanzo Schindler’s Ark (1982), L’Arca di Schindler, titolo che allude all’arca di Noè, tuttavia ad un’arca speciale, non organizzata da un ebreo su incarico del dio giudaico, ma da un tedesco iscritto al Partito Nazista, da un nazista dal cuore umano. Il titolo del film inserisce il termine lista in luogo di arca, ciò che toglie la metafora esplicita dell’ebraismo, ma che comunque vi si collega sul piano implicito essendo l’arca presente nel titolo del romanzo di riferimento a monte del film, titoli collegati entrambi anche dalla medesima struttura grammaticale. In tedesco – e in Jiddisch – esiste il medesimo termine List-list tuttavia con altro significato: astuzia, trucco. Tale concetto inerisce alla semantica del film: astuzia del protagonista per guadagnare denaro e successivamente astuzia per salvare dalla strage nazista gli operai ebrei. A proposito della cultura di lingua Jiddisch, nel doppiaggio tedesco la pronuncia degli ebrei, Itzhak Stern incluso, ha qui e là qualche tonalità Jiddisch in memoria della realtà ebraica nell’Europa centro-orientale all’epoca, realtà condivisa dalla stessa famiglia di Spielberg, di Steven ancora fanciullo.
L’argomento generale del film si individua sia nella rappresentazione dello sterminio relativo agli ebrei polacchi inviati ad Auschwitz e dapprima radunati nel campo di lavori forzati di Płaszów, un sobborgo di Cracovia, dal 1943 al 1944 sotto il comando dello storico ufficiale austriaco Capitano delle SS, SS-Hauptsturmführer Amon Göth – che nel libro e nel film è qualificato con il grado inferiore di Untersturmführer o Sottufficiale –, sia nella rappresentazione dell’avventura esistenziale del fabbricante tedesco Oskar Schindler che impiegò nella sua D.E.F. Deutsche Emailwarenfabrik, Fabbrica tedesca di prodotti smaltati, circa milleduecento ebrei.
In questo studio non ci occuperemo in esclusivo dettaglio della rappresentazione della strage degli ebrei nota e confermata ovunque a livello di documentazione degli eventi e sulla cui verità storica come globalità e dettaglio nuove possibili informazioni in aggiunta a quelle già acquisite nulla potrebbero ormai mutare sostanzialmente, né in meno, né in più. Né ci occuperemo delle sviste di dettaglio nel film, ciò di cui esistono appositi studi e che comunque non sono relative al significato del film, del suo messaggio di superficie e profondo che qui è ciò che ci interessa.
Verrà invece data in questo studio, specificamente e tra l’altro, ragione della particolare presentazione del nazismo giudicata da una parte della critica come troppo edulcorata. Soprattutto verrà data centralità ad un tema che all’analisi appare rilevante sia per la semantica profonda del film, sia per la Weltanschauung generale espressa nell’interpretazione di Spielberg relativamente all’ambito delle due culture protagoniste fondamentali nel film per angolature più o meno evidenti, sia per la diversità di visione della vita negli uomini e nelle donne, un Leitmotiv, questo, della filmografia di Spielberg.
Cominciamo con un preliminare breve cenno di presentazione della simbologia inerente ai titoli di testa fluenti nel montaggio con il primo inizio del film.
I titoli sono a colori, segno che si tratta della vita e della cultura degli ebrei, ebrei e cultura ancora viventi. Quando si esauriscono le due candele accese nella liturgia ebraica dello shabbath o שבת, una candela per il ricordo della fuga dall’Egitto e l’altra per il ricordo della creazione divina e del suo compimento, ossia quando di esse resta diretto verso l’alto solo un sottile filo di fumo che, già ormai in bianco e nero, si collega al possente fumo del convoglio ferroviario che trasporta i detenuti ad Auschwitz, si evidenzia direttamente il collegamento del fumo della fine delle candele al fumo del forno crematorio in funzione che attende i deportati ebrei perché diventino fumo essi stessi, il tutto in inquadrature che fluiscono una nell’altra collegate dalla presenza del fumo quale effetto dell’incenerimento e della fine della vita degli ebrei, il fumo esile della vita degli ebrei destinati a morire in quello violentemente vigoroso del trasporto finalizzato ad Auschwitz e al suo forno. La stessa seconda parte del film inizia con un cielo oscurato dal fumo greve di cenere dovuta al forno, sempre in funzione incessante – Schindler prende in mano la neve scura di cenere che sa essere composta anche della cenere dei corpi degli ebrei bruciati nei forni. Titoli di testa dunque che nel fumo grigio trovano il loro senso e collegamento con l’argomento centrale del film, come la vita degli ebrei finisse in fumo, come tutto ciò che li concernesse terminasse in fumo. Titoli a colori che si collegano con le scene finali del film, anch’esse a colori: vita degli ebrei a colori prima dello sterminio, interrotta dal fumo che associa la fine delle candele riguardanti la storia degli stessi all’incenerimento nei forni, successiva ripresa della vita degli ebrei nella storia dell’umanità, sopravvivenza quindi della cultura ebraica non annientata del tutto.
Segue ora un cenno sul nome Auschwitz, speciale personaggio protagonista del film. Tale nome, dopo alterne vicende e dopo secoli di spartizioni della Polonia e cambi dal nome polacco di Oświęcim a quello tedesco di Auschwitz e viceversa e dopo che con la caduta della monarchia austroungarica nel 1918 fu sostituito nuovamente con il nome polacco, fu rimesso in auge dai nazisti nel 1939. Forse o senz’altro la zona fu considerata la più adatta allo scopo vista la vicinanza della rete ferroviaria e la già presente installazione di caserme. Tuttavia, a parte i riferimenti pratici, certamente interessante è il dato di fatto secondo il quale il nome tedesco risultò particolarmente adatto all’impostazione psicologica generale dei nazisti relativamente allo sterminio dei popoli nei forni crematori, specificamente degli ebrei, la cui cancellazione dalla storia europea era la meta principale della Germania nazista. Ad un orecchio formato nella lingua madre tedesca non poteva essere sfuggito il significato possibile del termine, molto evidente, molto chiaramente espresso. Sono state formulate ipotesi in merito che sottolineano come tale semantica non sarebbe stata neutrale riferitamente alla scelta del luogo da parte dei nazisti. Accanto alle interpretazioni già esistenti del significato del termine che fu gradito ai nazisti, viene qui proposta ed esposta una ulteriore nuova interpretazione che segue la regolare suddivisione Au-Schwitz – il significato dell’originale nome polacco non ha nulla a che fare con la semantica sottostante al nome tedesco. In questa interpretazione Au- conserva il significato che gli compete nella lingua tedesca: bassopiano, regione pianeggiante, un termine che compare in molti cognomi e toponimi tedeschi in genere come parte finale degli stessi, ad esempio Birkenau o luogo di betulle e molti altri; inoltre au, scritto minuscolo, esprime la classica interiezione tedesca per il dolore corrispondente all’italiano ahi, ma anche utilizzabile per esprimere la gioia stessa: nella fattispecie dolore per gli ebrei, gioia per i nazisti. Quanto a Schwitz, esso deriva dal verbo schwitzen che significa non solo sudare, ma anche soffriggere, rosolare, per cui il termine indicherebbe molto sarcasticamente e tremendamente, in base alla presente ipotesi semantica, non solo luogo di sudore conseguente ai lavori forzati, bensì anche e soprattutto luogo di rosolamento. I nazisti dunque, dopo avere sfruttato il sudore, ossia il lavoro degli ebrei, avrebbero rosolato, soffritto, cucinato gli stessi nel forno, nei forni del complesso facente capo ad Auschwitz, emblema generale della progettata Endlösung der Judenfrage o soluzione finale della questione ebraica in Europa, divertendosi essi per la sofferenza dei malcapitati in una sorta di ironia nera e spietata tra il retorico e il tattico.
Dopo il cenno semantico ritenuto consono ad introdurre la vicenda come dagli speciali titoli di testa del film e dall’identità semantica del più sinistro protagonista del nazismo, nonché prima di occuparci del tema profondo del film che va oltre la rappresentazione dell’olocausto, diamo spazio di seguito ad alcune scelte di Spielberg molto interessanti tra le altre: il già citato bianco e nero della rappresentazione e il colore per alcune scene; il reclutamento degli attori; la raffigurazione generale del nazismo tedesco, scelte considerate rilevanti per la semantica filmica espressa dal regista.
Spielberg ha dato la sua interpretazione sulla scelta del bianco e nero nel film invece che del colore, nel senso che i colori simboleggerebbero la vita, mentre il bianco e nero, il grigio, la mancanza di vita, la morte stessa. Nel contesto del film ciò si dimostra vero: di fatto, a comprova di questa opinione di Spielberg, alla fine della vicenda compaiono le nuove generazioni degli ebrei sopravvissuti ad Auschwitz e improvvisamente rappresentati a colori, segno della ripresa e prosecuzione della vita dopo i forni crematori eretti dai nazisti. Aggiungendo qualche dettaglio in proposito, gli eventi si sono svolti in tempi ormai lontani, dove dominavano le pellicole in bianco e nero e la riproposizione di queste cromie oggi, dove al contrario domina il colore, porta più vicino il passato del cinema dando anche il tocco proprio dei documentari originali dell’epoca. In altri termini: le immagini reali degli eventi relativi al periodo storico sono pervenute in bianco e nero, quindi l’uso del medesimo colore si collega all’intento documentario del film e lo rafforza. Approfondendo in ambito non storico-documentaristico, ma più propriamente artistico, l’utilizzo del bianco e nero, distante dalla realtà della vita che è a colori, implica nello speciale contesto filmico come le persone di cui viene rappresentata la vicenda storica siano in realtà nella quasi piena totalità ormai ombre che l’immaginazione fa rivivere, ombre di chi non ha più i colori della vita.
Una parte della critica ha ritenuto la presenza dei colori che compaiono alla fine di un’opera sull’olocausto qualcosa di non consono dopo una tale tragedia, fraintendendo il fatto che la ricomparsa dei colori non riguarda l’olocausto e non cancella affatto gli orrori relativi alla strage degli ebrei – descritti per altro in bianco e nero tranne che all’inizio relativamente ai riti ebraici, riferiti alla storia degli ebrei come più sopra chiarito. Il colore che appare nel finale del film, dopo l’olocausto, dunque attesta di per sé molto esplicitamente la sconfitta dei nazisti, della loro volontà di sterminio degli ebrei: la vita degli ebrei riprende e continua malgrado l’opera della loro cancellazione programmata e in buona parte attuata, ossia, i colori nella scena finale del film risultano del tutto funzionali a simboleggiare la vittoria del popolo ebraico e della vita in sé su un genocidio organizzato pur tanto efficientemente. Una nota sull’impostazione generale verso la vita nella cultura ebraica: il brindisi nei festeggiamenti, l’italiano ‘alla salute’, ‘cin cin’ e altro, corrisponde nella lingua ebraica all’esclamazione לחיים, alla vita, concetto che si riflette nel detto citato dal personaggio di Chaja Dresner, in tedesco: eine gelebte Stunde ist immer Leben, un’ora vissuta è sempre vita, a significare la vitalità ad oltranza in tale popolo che su questo principio vitale, che dà valore massimo anche ad una sola ora di vita in più, è riuscito a sopravvivere alle persecuzioni subite ovunque nel mondo, soprattutto nella Germania nazista, ma appunto non solo. Alla contestazione di parte della critica relativa all’inserimento del colore che non è stato compreso nella sua forte simbologia contrastiva con il bianco e nero, è utile sottolineare in aggiunta il fatto che il colore, oltre ad un suo proprio significato intrinseco, assume il suo senso più compiuto e preciso sempre secondo il contesto come per altro abbiamo testé evidenziato, un senso che può essere anche opposto a quanto esso possa simboleggiare di per sé. Per chiarire ancora la complessità dell’interpretazione del significato dei colori, è stato scelto qui il parallelo sulla presenza dell’azzurro in una impietosa immagine della famosissima ballata Todesfuge, Fuga sulla morte, del grande poeta rumeno di nascita, ma tedesco di lingua madre e cultura Paul Celan riferita ad una giornata tipo in un Lager nazista, simbolo di tutti gli altri Lager:
“(…) der Tod ist ein Meister aus Deutschland sein Auge ist blau (…)”
“(…) la morte è un Maestro che viene dalla Germania il suo occhio è azzurro (…)” (Trad. di RM)
poesia dove la presenza del colore della più bella spiritualità non è segno di vita ma di morte, l’occhio colorato di azzurro è l’occhio della morte, ciò che di primo acchito testimonia il fatto che la morte, nella poesia di Celan, sia impersonata da un tedesco dagli occhi azzurri. Tuttavia la scelta della preposizione aus nel sintagma aus Deutschland indica anche e soprattutto come la morte venga dalla Germania non come semplice provenienza dovuta ad una o l’altra contingenza, ma come origine, per così dire come nativa del luogo o residente in esso, appunto originaria della Germania, un giudizio che in Celan pare coinvolgere non solo i nazisti tedeschi, ma tutti i tedeschi, il popolo tedesco intero. Ancora un dettaglio sul colore in questa poesia: l’azzurro è segno in generale di spiritualità come il cielo, posto per convenzione e antica credenza in alto, evoca se sereno, così il nazista tedesco per Celan, in una punta insuperabile di ironia nera, porta sì spiritualità – l’azzurro celeste la reca comunque con sé –, ma una spiritualità ossimorica della fine della vita, della morte, come simboleggiato dallo svanire dei corpi inceneriti nel nulla dell’aria, nel cielo, grigio, scuro o azzurro che sia.
Ora, come annunciato, un’osservazione sulla scelta degli attori, piuttosto rilevante entro la semantica profonda del film – la scelta dell’attore irlandese Liam Neeson per il personaggio di Oskar Schindler può considerarsi buona in ogni caso. Prima di giungere a lui, furono comunque contattati lo svedese Stellan Skarsgård, anche Harrison Ford che fortunatamente rifiutò e lo svizzero tedesco Bruno Ganz che rifiutò pure – accettò successivamente di interpretare Adolf Hitler nel film Der Untergang (2005) del regista tedesco Oliver Hirschbiegel, La caduta o più appropriatamente Il tramonto, opera relativa agli ultimi giorni di Hitler. Altri attori americani si offrirono per il ruolo, ma non vennero accettati. Tim Roth, inglese di Londra dal nome tedesco contattato per Amon Göth, rifiutò.
A parte la scelta di Neeson per Schindler, si potrebbe forse ritenere più opportuno che Spielberg per un personaggio come quello di Amon Göth avesse cercato e ingaggiato un attore di lingua madre tedesca, non inglese o altra. Le lingue madri normalmente in uso nelle persone configurano non solo in linea di massima la personalità dei parlanti, ma anche per qualche atteggiamento importante la spazialità fisica inconscia dei parlanti, soprattutto a livello di ritmi, ciò che non si recepisce consapevolmente, ma che fa comunque un suo cenno di effetto nella performance appunto a livello inconscio. Trattandosi di una SS tedesca sarebbe stato, molto ovviamente, più consono un bravo attore tedesco, parlante il tedesco come lingua madre. Non si tratta qui di una critica negativa dell’interpretazione di Ralph Fiennes, in generale bravo attore di lingua inglese che si è fatto apprezzare nel cinema soprattutto per un suo personale fascino, si tratta di una scelta di Spielberg che appare di primo acchito un po’ particolare, questo addirittura anche per la voce stessa, una “eccellente voce da baritono” nell’Amon Göth storico (Keneally 1986: 174) e più similtenorile nell’attore come pure, ad esempio e ancora meno baritonale, nel doppiatore italiano. Anche il doppiaggio tedesco non ridà la voce secondo la connotazione che ne offre Keneally nel suo romanzo documentario. Piuttosto rilevante per la comprensione di quanto sta nel film: Spielberg era, come lo è tuttora, particolarmente consapevole dell’importanza delle lingue, quindi anche delle voci, per caratterizzare la personalità. La presenza – si conceda la drastica schematizzazione – di un tenore inglese in luogo di un baritono tedesco per un ruolo così determinante per la fisionomia psichica del macellaio di Płaszów, der Schlächter von Płaszów, come fu soprannominato Göth, può essere valutata di primo acchito appunto come un’idea non felicissima, sarebbe come fare interpretare il Mahatma Ghandi da un attore svedese o come aver fatto interpretare il siciliano Principe di Salina da Burt Lancaster, troppo visibilmente americano dalla testa ai piedi, dentro e fuori per così dire. A questo punto c’è da chiedersi come mai Spielberg, così attento ai dettagli nelle sue regie, non abbia preso in considerazione un tedesco, ma abbia scelto un inglese come Fiennes, ripeto: bravo attore comunque, per il ruolo di una SS che uccise personalmente più di cinquecento ebrei e ne fece sterminare circa diecimila. Certo un motivo a monte della scelta di Spielberg non può non esserci stato, conscio o inconscio, appunto più profondo e tanto più presente in un tale importante film che attraverso l’olocausto si è occupato di due differenti e anche opposte culture a confronto. E ancora più certamente il motivo non fu che gli attori contattati in precedenza per Göth non avessero accettato visto che non fu interpellato, a quanto pare, nessun attore tedesco. E nemmeno fu che la scelta di soli attori di lingua inglese sia stato frutto di casualità nell’assegnazione dei ruoli – e per altro in una trascuratezza sarebbe comunque piuttosto sospetta la convergenza di soli attori di lingua inglese per la figura di Amon Göth tra i numerosi di lingua tedesca a disposizione, senz’altro più adatti di Fiennes che, tra l’altro, quando in un primissimo piano dice a Itzhak Stern di guardarlo in faccia per fargli vedere la propria assenza di scrupoli e crudeltà, rasenta il risibile non essendo proprio tagliato per una SS di lingua madre tedesca. Per insistere, nessuno dunque degli interpellati per il ruolo di Amon Göth era di lingua tedesca, mentre le SS sono in generale interpretate nel film da attori tedeschi. All’interno della citata considerazione dell’importanza delle lingue, la motivazione della scelta dell’attore per il ruolo di Amon Göth si individua sotto la superficie, a livello un po’ più profondo. Essa si evidenzia proprio come collegata alla lingua degli attori interpellati e diviene evidenza del fatto che il nazismo e l’antisemitismo non siano stati presentati da Spielberg come fenomeno relativo solo al popolo tedesco – come al contrario nella poesia di Celan che fa della morte un sinistro individuo dagli occhi azzurri addirittura originario tout court della Germania ed emblema psicologico non solo del nazismo ma dello stesso popolo tedesco –, ma come l’antisemitismo e di conseguenza ulteriori forme di nazismo inteso come categoria dello spirito siano stati ritenuti, almeno in questo frangente, eventi possibili in qualsiasi cultura umana, anche e soprattutto in quella di lingua inglese. Ad onore della scelta fra attori di lingua inglese per il personaggio di Amon Göth c’è da dire, andando dalla realtà del film alla biografia di Spielberg, che questi subì da piccolo l’accanito antisemitismo dei suoi coetanei, ciò non in Germania, bensì negli Stati Uniti, dove la lingua ufficiale era ed è l’inglese e dove fu insultato, minacciato e isolato, scacciato dagli altri ragazzetti sperimentando così la più intensa paura dei loro attacchi sul piano fisico. Questo trova nel film anche un paio di agganci molto diretti e significativi. Un ragazzetto scaglia del fango raccolto a terra contro una donna ebrea che sta lasciando la sua casa requisita dalle SS e una ragazzetta a lui vicina caccia via gli ebrei urlando incessantemente. Inoltre un fanciullo, in casa con i genitori e il fratello minore mentre sente sopraggiungere una squadra di SS che corrono urlando e quasi ululando alla ricerca di ebrei da uccidere, trema in preda al panico, ciò che viene evidenziato in una inquadratura di primo piano e a lunga durata, quindi un ragazzino che ha il terrore degli antisemiti.
A livello di superficie inoltre potrebbe sorprendere che molti nazisti, come accennato specificamente nella cena che dà inizio alla vicenda al suono del magnifico tango argentino di Carlos Gardel Por una cabeza, vengano rappresentati in linea generale e di massima come quasi simpatici e come persone normalmente prive di particolare temibilità, capaci di divertirsi semplicemente sebbene un po’ rozzamente – vediamo per altro in tutto il film come i nazisti ridano a crepapelle per motivi a causa dei quali nessuno riderebbe e neanche Schindler ride se non per finta, per motivi di convenienza. Ad esempio Rolf Czurda, tenente delle SS e all’epoca capo dell’SD o Sicherheitsdienst, Servizio di Sicurezza o di polizia a Cracovia, interpretato da uno splendido Friedrich von Thun, è di una simpatia addirittura irresistibile. A livello semantico più profondo al contrario non vi è più nessuna sorpresa per la simpatia che connota in certa misura personaggi in realtà così sinistri, bensì il messaggio del film si fa ancora più coerente nel senso più sopra accennato: anche se gli assassini possono essere simpatici per qualche verso, restano pur sempre assassini, non basta la simpatia o il fascino personale o altro a cancellare il male, facendo una breve digressione: non è che Reinhard Heydrich, il fondatore dell’SD, del citato Sicherheitsdienst, del servizio segreto delle SS e del Partito in appoggio alla Gestapo, per il fatto che fosse, a quanto si dice, un abile violinista e senz’altro sensibilissimo alla buona musica fino alla commozione, non fosse per questo anche un assassino dei più feroci, ciò che non solo non cambia per l’abilità musicale, ma neppure cancella l’abilità e la sensibilità musicale, connotazioni entrambe della personalità che possono coesistere. In ogni caso, successivamente, proprio Czurda-von Thun, in un molto interessante cenno di cambio nell’espressione – tutt’altro che risibile, bensì del tutto adatto allo spirito della circostanza – quando si rivolge a Schindler nella penombra del suo ufficio a proposito dell’impiego di un operaio ebreo con un braccio solo nella sua fabbrica, mostra un volto meno simpatico, manifestando di aver capito molto bene in realtà le mete umanitarie di Schindler che per interesse in costosi regali, cibi e bottiglie pregiate nasconde di consueto. Nell’inquadratura Czurda-von Thun rende visibile la propria potenziale pericolosità, così che Schindler perde, nella ottima interpretazione di Liam Neeson, per un brevissimo microattimo, la sua ostentata e audace disinvoltura che tenta di riprendere subito dopo, mantenendo comunque la paura in qualche angolo degli occhi. Una nota sulle inquadrature e sull’ambientazione di tale scena che coinvolge Czurda e Schindler. Czurda è seduto alla scrivania a sinistra dell’immagine che comprende i due personaggi, quasi nascosto nella penombra, semi scomparso, ciò che preannuncia un suo possibile vicino tramonto, ma che evidenzia anche il fatto che la sua vera natura sia tenuta nascosta – quando mostra la sua vera personalità occupa tutto lo schermo ed è un po’ più visibile. Schindler è spesso ripreso in piedi, dal retro e di profilo, nonché dal basso con netti contorni in controluce verso la finestra, alto, prospetticamente quasi gigantesco rispetto a Czurda. La sua figura, specialmente quando è eretto, forma il lato maggiore in un triangolo invisibile, di cui Czurda forma il vertice dei due lati che convergono verso o contro di sé, divenendo un punto quasi evanescente nella gamma dei chiaroscuri sul grigio, una spazialità che mostra Czurda con le spalle al muro, per così dire sotto il tiro di Schindler e comunque sotto lo svolgersi ormai inevitabile degli eventi più grandi di lui, ma, nel contempo, ancora lo mostra mentre tiene le fila del male in suo potere, nascostamente. La grande figura di Schindler rispetto a quella minuscola di Czurda potrebbe riferirsi alla grandezza morale di Schindler, il tedesco buono, e alla piccolezza del nazista, del cattivo, ma non si può trascurare il fatto che Schindler sia rappresentato quale ombra scurissima, senza chiaroscuri, ancora più ombra del cattivo che mantiene sempre i tratti del volto per quanto più o meno grigi, ossia la grandezza della figura non evita che siano del tutto cancellati i tratti identitari e che la sagoma di Schindler sia totalmente equiparata a un’ombra anonima: il bene può essere anonimo – per come appare dalle inquadrature in questa scena –, la memoria dell’identità dei cattivi, sempre per come appare nelle inquadrature in questione, resta per sempre e anche, pare, deve restare a loro vergogna imperitura e affinché la storia sia maestra di vita, per non sbagliare più. Al proposito anche la SS cui Schindler offre in seguito dei diamanti in cambio del riscatto dei suoi operai ebrei è parzialmente in ombra, come si nascondesse in una tana salvo a farsi vedere con chiarezza in qualche frangente, in altri termini: i rappresentanti della polizia segreta celano la loro doppia pericolosità, ma fanno comunque vedere il loro vero ruolo temibile all’occasione. Per altro in un paio di brevissime scene compaiono dei nazisti che sembrano voler aiutare Schindler nella sua impresa e che affermano di non poter rischiare oltre, ciò con cui Spielberg elimina, per altro molto molto sbrigativamente, il problema di una eventuale non condivisione del nazismo da parte di qualche nazista stesso.
Ancora permanendo nello stesso argomento di una certa, per quanto parziale, umanizzazione dei nazisti presente non ovunque, ma identificabile in qualche angolazione filmica, Amon Göth riceve qui e là tratti piuttosto o un po’ umani: ascrive la colpa del disastro contro gli ebrei alle circostanze, alla guerra, al nazismo, dimenticando – e magari facendo dimenticare al pubblico – le centinaia di ebrei assassinati da lui stesso in persona a Płaszów per il puro piacere di uccidere. Verso la fine del film dichiara di dubitare che sia rimasta in lui una traccia d’uomo, ciò che vorrebbe dare – o dà – l’impressione di come fosse consapevole della propria negatività. Inoltre proprio una persona come lui fa della filosofia, dice addirittura a Helene come la verità sia sempre la cosa giusta e questo non in tono ironico, ma apparentemente veritiero, come se fosse veramente un suo pensiero, in aggiunta, in occasione dell’arresto di Schindler, lo difende di fronte a Rudolf Höss, l’ideatore e primo comandante di Auschwitz. Spielberg non evita di presentare Amon Göth anche come capace di farsi almeno tentare dai sentimenti quando lo presenta mentre starebbe per baciare Helene Hirsch nello scantinato dove essa vive come sua cameriera. In questa circostanza Göth-Fiennes manifesta eleganza di atteggiamento e fascino, tentazione erotico-affettiva che rimane tale senza condurre a nessuna azione conseguente, ed anzi precede il maltrattamento violentissimo attuato contro Helene. Tuttavia nella scena che anticipa e prepara la scarica violenta si assiste ad una specie di umanizzazione di Göth che mostra tra l’altro di sapere di essere una persona disumana, come richiesto dall’etica nazista di cui c’è il germe nell’etica germanica, guerriera, impostata all’assenza di pietà, di compassione. Una specie di cenno a questa ombra di umanizzazione del malvagio si trova anche nella documentazione di Keneally: lo storico Göth disse di voler invecchiare con Helene a Vienna alla fine della guerra, mostrando con ciò di avere comunque un legame per così dire affettivo con la donna ebrea – per quanto simile a quello del carnefice con la sua vittima. Il fatto che i nazisti del film mostrino talora qualche sentimento positivo evidenzia ancora di più, implicitamente, come fosse inconsistente l’umanità in essi, certo non proprio nulla, ma il pochissimo in loro dotazione è tale da far spiccare per contrasto la grande misura di assenza di qualsiasi positività. Per ribadire: questo per come appare all’analisi di quella che molta critica ha giudicato come un’edulcorazione del nazismo in Spielberg. Piuttosto, come abbiamo visto, esiste una denuncia, per quanto sottile, della possibilità che il nazismo possa essere presente anche in altri popoli, quasi sia una categoria dello spirito umano, ovviamente in negativo.
La presentazione dei nazisti tedeschi, pur provvista di qualche speciale edulcorazione come abbiamo fatto emergere – per altro come accennato Schindler è interpretato non da un attore tedesco, ma da un irlandese, quasi, per così dire, non ci fosse un attore adatto o un uomo buono in tutta la Germania –, non equipara dunque affatto l’opera di Spielberg ad una rappresentazione hollywoodiana dell’olocausto e del nazismo come nella critica espressa da non pochi ebrei e non ebrei. Di fatto Spielberg non cessa di presentare i nazisti in modo particolarmente negativo e, sotterraneamente, non solo i nazisti: vi sono, come vedremo con rilevanti dettagli a conferma, anche sovrapposizioni, osservabili più in profondità, di frange del giudizio negativo estese addirittura ai tedeschi in generale. Comunque, i nazisti di Spielberg sono tutti corruttibili e corrotti dal tedesco Schindler con denaro, cene sontuose e alcolici di marca, doni preziosi – ma anche l’ebreo Goldberg che ha accettato di fare parte dell’Ordnungsdienst, Servizio d’Ordine reso da ebrei per controllare gli ebrei nei campi di concentramento, è corrotto e anche con poco. Spielberg mostra come l’essere umano sia in linea di massima corruttibile, ossia non commette l’errore di presentare gli ebrei come l’unica eccezione positiva a quella che pare essere una regola generale dell’umanità: la corruttibilità. In aggiunta: l’ebreo Poldek Pfefferberg è un abile commerciante in borsa nera e fa affari nel disastro generale che coinvolge gli ebrei stessi.
Veniamo ora al dettaglio più vistoso concernente la presentazione del tutto negativa non solo dei nazisti, ma, come accennato, dei tedeschi stessi nell’interpretazione di Spielberg. Si tratta della lingua tedesca. Questa viene equiparata in diverse rilevanti scene ad un abbaiare di cani: nelle scene dove si sentono le urla dei cani e le voci dei nazisti che, come si intuisce, si scambiano informazioni e danno ordini urlando, il loro linguaggio non si distingue propriamente da un abbaiamento. Interessante al proposito è l’intento didattico della ripresa dei cani stessi quando sono al guinzaglio di alcune SS e muniti di museruola, apparentemente come comportamento civile – si sa che i cani grossi si devono portare con la museruola perché non azzannino nessuno, ma si sa anche che i nazisti davano volentieri in pasto ai loro cani gli ebrei, per cui la presenza della museruola non è da ricondursi nella circostanza ad una mentalità civile nei nazisti. In una più profonda realtà semantica nel contesto precipuamente linguistico stante a monte delle inquadrature risulta altro o anche altro. È come se, secondo l’implicito intento delle immagini organizzate da Spielberg, i nazisti stessi facessero meglio a mettersi la museruola per parlare, visto che abbaiano e ululano anch’essi come cani parlando la loro lingua. E qui appunto non si tratta solo di nazisti, ma in linea di massima di tedeschi, ossia, a prescindere da ogni diversa considerazione in merito, non si può dimenticare che i nazisti in questione fossero anche e inevitabilmente tedeschi parlanti – o abbaianti – la lingua tedesca come lingua madre. Quando Göth parla in un’inquadratura con Schindler, nella versione tedesca, parla un tedesco foneticamente pessimo, mancante tra l’altro delle aspirate che costituiscono in ogni caso un motivo di bellezza in tale lingua, così che il tedesco, in una diafora a livello acustico, non sembra neanche tedesco. Anche quando le SS corrono per le vie di Cracovia alla ricerca di ebrei da uccidere sul posto, gridano le parole in modo quasi incomprensibile e anche del tutto incomprensibile e di nuovo similmente a cani ululanti. Non si può dunque affermare che Spielberg sia stato scarso di complimenti per i nazisti, per il popolo tedesco stesso coinvolto pienamente nel trattamento riservato alla lingua tedesca. Per altro anche nell’iniziale cena nell’elegante ristorante di Cracovia Schmölzer, nei panni dello storico Dieter Reeder, parla a voce alta e rozzamente con la bocca piena così che, nella versione tedesca del film, quasi non si capisce che cosa stia dicendo, questo di nuovo nell’ottica di disprezzo della lingua tedesca da parte di Spielberg. Tuttavia, questo giudizio di Spielberg su tale lingua per come si evince dalla scene citate, è frutto di una satira tremenda da parte di Spielberg, che fa come se non sapesse che la lingua tedesca è la lingua dei più grandi compositori di musica complessa, sinfonica, cosiddetta classica, ciò che ha la sua base, inevitabilmente, nelle caratteristiche della lingua stessa, mentre nel film il tedesco non è mai parlato in modo che le sue eccellenze in fatto di fonetica complessa siano messe in evidenza, è sempre pronunciato nella norma più o meno male e si può capire come tale lingua sia stata fatta apparire in ogni caso come un insieme di suoni e soprattutto ritmi rozzi, animaleschi, da cani appunto. Sempre a proposito della lingua tedesca, nella seconda parte del film vi è una scena che mostra i nazisti in divisa passeggiare avanti e indietro nel terreno di Płaszów e costringere gli ebrei a dissotterrare i morti per poterli incenerire. Tali nazisti maltrattano ferocemente gli ebrei affinché spalino il terreno con le vanghe e facciano in fretta, qualcuno di essi si pone il fazzoletto alle nari per via del fetore della decomposizione, ma molti nazisti non si difendono dall’odore, lo respirano senza battere ciglio ed anzi, qualcuno trova modo di ridere sguaiatamente, di saltare animalescamente e diabolicamente nelle fosse per picchiare coloro che scavano, uno di loro fuori di sé dalla barbarie non solo ride, ma spara follemente ai morti stessi in putrefazione in un contesto infernale e apocalittico senza uguali, contesto in cui i nazisti comunque non evitano di urlare la loro lingua nel peggiore dei modi. In ogni caso, in qualsiasi modo la si voglia vedere, è comunque difficile se non impossibile nel film di Spielberg separare la lingua tedesca dalla lingua dei nazisti. Questa brutalizzazione della lingua tedesca compare a onor del vero anche in altri film sul nazismo, ma senza essere corredata dai finissimi dettagli semantici di cui la provvede Spielberg in un gioco più che mai corrosivo e, si potrebbe dire, senza possibilità di equivoco, come l’analisi al proposito ha evidenziato.
Quanto alle discrepanze con la verità storica degli eventi, che qualcuno ha messo in rilievo, occorre ricordare che non si ha a che fare con un documentario, né con una cronaca, bensì con un’opera di fantasia che, pur basata su evidenze storiche, resta un’opera dell’immaginazione artistica, ciò per cui è del tutto normale ed inevitabile che alcuni particolari rappresentati nel film siano diversi da quanto tramanda la storia e che corrispondano ad esigenze della narrazione filmica, alle personali vedute in primo luogo del regista.
Arriviamo adesso alla scena di centrale rilievo per il significato profondo del film. Essa riguarda il diverso comportamento di Schindler e di Göth verso la fisicità e anche la sessualità come veicolo del rapporto con l’altro. Göth si è, suo malgrado, invaghito di una detenuta ebrea, Helene Hirsch, che vediamo per la prima volta mentre si dirige nel Lager assieme agli altri ebrei e di cui successivamente Spielberg offre un’inquadratura di primo piano mentre trema dal freddo sotto la nevicata e anche dalla paura davanti a Göth che sta selezionando una donna per l’incarico di sua cameriera. Davvero l’immagine di Embeth Davidtz tremante al freddo e alla scarsa nevicata è di straordinaria bellezza sprigionante un raffinatissimo erotismo, a questa attrice, che Spielberg ha voluto di origine ebraica, e con lei alle donne ebree questo regista ha voluto dedicare una memoria di eccezionale pregnanza. La bellezza e la femminilità di Helene Hirsch colpiscono subito Göth che la sceglie tra le altre. Essa abita nel piano interrato, nello scantinato, non nei piani superiori. A livello concreto essa vive quasi come un topo in cantina – gli ebrei erano tra l’altro paragonati a ratti come si dice anche nel film –, in ogni caso come essere inferiore che si debba nascondere e non abbia il diritto di mostrarsi liberamente come lo possono gli altri, i tedeschi. A livello più profondamente simbolico, essa vive là dove sta la base più profonda dell’affettività, anche quella di Amon pertanto, là dove stanno l’inconscio, il rimosso, nel caso di Amon la disposizione per il bene, per gli affetti, per i sentimenti positivi che sono stati in lui appunto rimossi, ciò che lo ha reso un mostro umano. Come più sopra accennato, la soppressione di ogni sentimento di compassione è comunque un Leitmotiv della cultura germanica, non si tratta di un atteggiamento preteso e rivendicato solo dai nazisti, questo per chiarire.
Tornando al film, Schindler è disponibile verso tutte le donne, che abbraccia e bacia sulle guance, sulla bocca, non indietreggiando dal contatto fisico più stretto per nessun motivo ideologico o di perbenismo o di pregiudizio di qualsiasi genere. È un libertino che, nel film, grazie a questa sua disposizione a non avere paura di toccare il corpo degli altri instaura un rapporto con essi che non resta distaccato da una umanità più calda e che non si lascia dissolvere tanto agevolmente. Göth, che si tiene alla larga da un libero contatto fisico con gli altri e dagli ebrei in particolare, non sviluppa nessun sentimento positivo verso il prossimo e uccide pertanto con totale facilità.
La scena madre a dimostrazione della tesi semantica testé accennata sta nella parallela visione della festa di matrimonio degli ebrei e di compleanno in onore di Schindler e della visione dell’incontro di Göth e Helene Hirsch nella cantina, doppia scena didatticamente alternata più volte sullo schermo affinché il messaggio in essa espresso possa essere recepito chiaramente. Mentre Schindler non resta lontano dalle donne che lo festeggiano e le abbraccia, anche le bacia eroticamente e sempre anche affettivamente, per gioia del rapporto umano, ossia non frena i suoi impulsi erotico-affettivi, Göth si avvicina sì a Helene, tocca i suoi capelli, anche lievemente il suo seno, guarda i suoi occhi, ma quando sente salire la propria eccitazione e con essa una propria disposizione positiva verso la ragazza ebrea, si ricorda dei suoi obblighi ideologici e razziali e invece di accarezzarla se ne allontana colpevolizzandola per la propria emersione di dolcezza e la picchia selvaggiamente fino a scaraventarle addosso, essendo essa già a terra in seguito ai colpi subiti, un’intera pesante scaffalatura. L’aver sentito una qualche bontà di sentimenti prodotta da un erotismo che vorrebbe un contatto fisico nella dolcezza produce l’emersione del rifiuto di ogni debolezza, per come viene interpretata la dolcezza. Una tesi estremamente interessante questa, che va alla radice del problema del rapporto maschio-femmina inteso come base della qualità della vita, una base che, nel film, trova nell’ebraismo tradizionale e della migliore qualità l’accoglienza della donna non come oggetto, ma come compagna, come essere umano importante. A proposito della collocazione della donna nella visione del mondo di Spielberg, essa è di centrale importanza nel film e nella Weltanschauung di Spielberg. Nel film stesso compare uno dei famosi abbracci tra madre e figlia che formano un microcosmo di affetti completo e ineguagliabile, come se in esso nulla potesse più fare breccia, abbracci della totale sicurezza affettiva i quali avvengono in Spielberg solo fra donne, specificamente tra madre e figlia, donne che racchiudono in sé il mistero della vita. La scena riguarda il ricongiungimento di Danka, che stava nel sotterraneo per salvarsi dai nazisti, con Chaja Dresner, la madre. Davvero sembra che quell’abbraccio costituisca un mondo inespugnabile e questo è uno dei contrassegni della sensibilità di Spielberg che si ritrova in seguito ad esempio anche nella Guerra dei Mondi, alla fine, quando dopo la sconfitta dei tripodi la piccola Rachel corre verso la madre dimenticandosi del padre che l’ha comunque salvata e si compie il miracolo dell’abbraccio, come deve essere definita l’affettività delle due donne, dalla quale l’uomo è escluso, così nell’ottica di Spielberg anche in altri suoi film. Ricapitolando quanto più sopra esposto: il capitano delle SS e comandante del Lager evita e reprime proprio quel contatto fisico che lo potrebbe portare comunque all’accarezzare, all’accorgersi di avere un cuore capace di intenerirsi. Schindler è un libertino. Allora il libertinaggio è segno di umanità nel film? No. Si tratta di un libertinaggio particolare, unito alla buona disposizione verso il prossimo evidenziata dal calore degli abbracci, dalla durata dei baci, nulla di unicamente sessuale, si tratta di una forma di erotismo collegato all’affettività in ogni caso – Schindler mostra la sua umana compassione per Helene baciandola sulla fronte, ossia avendone un contatto fisico stretto, ed essa lo ringrazia commuovendosi per l’affetto dimostrato. Schindler bacia anche a lungo la bimbetta che gli porta la piccola torta di buon compleanno, ossia ovunque possibile instaura un rapporto fisico positivo che dimostra come per lui le persone siano esseri umani in carne ed ossa al di là di qualsiasi astrazione. Così, attraverso la visione del diverso comportamento verso il contatto fisico si ha nel film la contrapposizione di due Weltanschauungen: una costruttiva e l’altra distruttiva, rappresentate emblematicamente da due tedeschi, due nazisti nella fattispecie, in uno dei quali si infiltra una predisposizione fatta di cuore e di calda vitalità nell’accoglienza dell’altro. Ricordiamo che nel libro di Thomas Keneally non vi è una tale scena né un tale parallelismo con l’opposto comportamento di Amon Göth e Oskar Schindler e solo si racconta che Helene Hirsch viene selvaggiamente picchiata da Amon che l’ha resa anche sorda di un orecchio con un pugno e che le ha conferito in una delle varie occasioni di violenza l’aspetto di qualcuno che avesse avuto uno scontro con i mobili, comparazione questa che viene trasformata nel film in un vero e proprio scontro con un mobile, quello che Amon le scaraventa addosso pur di non correre il rischio di avvicinarla amorevolmente come starebbe per fare.
Anche quando Amon Göth vorrebbe sperimentare la bontà indossando il comportamento del buono secondo il consiglio di Oskar Schindler che gli ha detto che il vero potere sta nell’avere compassione, ciò che, come accennato, è l’esatto opposto di un principio cardine del germanesimo antico e di quello riesumato in seno al nazismo, Göth riesce a giocare il ruolo del buono solo per brevissimo tempo, questo perché i percorsi distruttivi soprattutto inconsci sono troppo solidamente strutturati in lui per farsi mettere in disparte con la semplice quanto superficiale e inefficace decisione consapevole di cambiare.
Se dunque Oskar bacia, abbraccia e tocca ogni donna che incontra sul suo cammino, Amon se ne sta lontano da esse tranne che per un rapporto sessuale che defraudato della tenerezza, dell’amore, non può risultare che ridotto ai minimi termini, un rapporto sessuale che non sfocia nell’affettività, reso monco della sua parte più positiva. Tale tipo di rapporto forma solo la premessa per uccidere senza farsi nessuno scrupolo, ma anzi traendo dall’omicidio forza e piacere, vigore o illusione di potenza, desiderio di sopraffazione, distruttività che nella scena analizzata è nutrita proprio dalla scarsa disponibilità ad un contatto fisico più ampiamente diffuso e comprendente le manifestazioni cosiddette affettive di cui non c’è traccia in Göth, non lo si vede mai in nessuna effusione amorosa. Dopo aver trascorso la notte con Majola, la sua donna, Amon si alza e per primo atto imbraccia il fucile e uccide senza alcun motivo anche minimamente plausibile un paio di detenuti, quindi non dopo una notte d’amore, ma dopo una notte di solo sesso – la sua donna comunque è in parte un po’ migliore di lui, non vorrebbe che Göth uccidesse con tanta facilità, ossia le donne tedesche in Spielberg sono comunque diverse dai maschi. Certo, anche Amon Göth bacia più donne alla sopra citata festa, ma ciò avviene durante una sbornia estrema, in una unica occasione, non ripetuta, con baci che non superano il tocco superficiale e parziale, privo di ogni trasporto per l’altro. Schindler è un tedesco che non ha represso la compassione nella sua personalità e ciò si vede anche nelle piccole cose come ha evidenziato magistralmente Spielberg. Quando ad esempio Schindler deve valutare le giovani donne ebree che scrivono a macchina, in una delle più belle scene riguardanti le donne, il loro carattere, non riesce a sceglierne una sola come dovrebbe e le assume tutte posando con loro nella fotografia di gruppo, le assume per umanità, per non escluderle dal gruppo, per non dover dire di no a tutte tranne che a una sola, così come poi non vorrà escludere nessun suo operaio dalla salvezza e compilerà assieme a Itzhak Stern la famosa lista di Schindler, la lista non degli incenerimenti, ma della vita. Tali donne valutate per la segreteria di Schindler, tranne una piuttosto mascolinizzata che infastidisce Schindler, ma anche Stern, sono carine di aspetto e anche nella personalità, dolci e mansuete, dotate di senso materno, disponibili a onorare la vita, delicatamente sorridenti, femminili appunto, insomma: donne che all’opportunità sanno essere madri coraggiose, ma che non per questo rinnegano la loro natura dolce, buona. In ogni caso a Schindler dispiace doverne accettare solo una e alla fine le accetta appunto tutte, le accoglie tutte nella sua fabbrica, nel suo cuore. Di rilevanza centrale quindi nel messaggio del film è la positività del contatto fisico nelle relazioni uomo-donna, nelle quali la donna detiene il ruolo di custode della vita e signora degli affetti – da sottolineare il fatto che la moglie di Schindler non accetta il libertinaggio del marito, ma comunque continua a volergli bene.
Prima di chiudere, qualche cenno di nota, per così dire, di colore su qualche dettaglio interessante scelto fra i tanti possibili e non trattati in questo studio che si occupa solo di alcuni temi del film ritenuti rilevanti per il messaggio profondo dell’opera.
Un grosso Leitmotiv nel film è costituito dalla pignoleria dei nazisti, tipica non solo dei nazisti, ma della cultura tedesca, la propensione a compilare carte e documenti, elenchi, suddivisioni e sottodivisioni modularmente ramificate di cose ed eventi, di persone, queste secondo capacità o incapacità, ulteriori connotazioni e sottoconnotazioni secondo una meritocrazia che appare soprattutto fatta di carte come dice il sergente Klaus Tauber a Schindler quando gli mostra un ulteriore elenco, una ulteriore lista concernente coloro che dovevano essere inceneriti ad Auschwitz e che viene ritenuta assolutamente esatta, priva di errori come nella migliore e infallibile tradizione pedantesca dei tedeschi – da rimarcare: la lingua tedesca è la lingua più gerarchica tra le lingue per così dire più importanti del mondo e anche tra tutte per quanto si conoscano. Carte dunque, cose prive di valore come viene esplicitamente detto dal militare stesso a propria discolpa per aver seguito le indicazioni della lista contenente anche il nome di Itzhak Stern che viene fatto scendere dal convoglio su ordine di Schindler. Scartoffie che vengono rese inutili da una semplice minaccia di Schindler di inviare i due sergenti – maggiore e minore, Hauptscharführer e Unterscharführer, tanto per differenziare anche lì gerarchicamente nel minimo dettaglio – nel Sud della Russia prima della fine del mese. Spesso, durante tutto il film, anche nella seconda parte più volte, si sentono nominare gli ebrei in appelli che dovrebbero servire a tenerli sotto controllo assieme alla loro catalogazione in elenchi – o liste – di vario tipo, frutto della particolare disposizione logica del popolo, della famosa precisione teutonica. Tale diposizione alla pignoleria – ribadiamo: non solo dei nazisti ma del popolo tutto – viene enfatizzata da Spielberg da un lato in onore della realtà storica degli eventi, dall’altro per mostrarne l’inutilità, l’insufficienza, per disprezzarla: alla fine il nazismo sarà sconfitto malgrado tutti gli elenchi e gli appelli, malgrado tutte le liste, tutta la precisione di carte e catalogazioni ridotte al rango di scartoffie appunto, una pedanteria che non servirà a dare la supremazia alla tedeschità e solo servirà a far conoscere al mondo con maggiore precisione l’infamia della Germania nazista – molti libri di liste e nomi furono per il possibile e in tutta fretta distrutti dai nazisti alla fine della guerra, ma non pochi dei moltissimi elenchi e sottoelenchi restarono e si poté prendere atto della Endlösung der Judenfrage e dei metodi adottati per l’egemonia della Germania nazista in Europa, per il cosiddetto mai sopito pangermanesimo. Solo la lista di Schindler, che è per la vita, avrà valore. Certo, come viene detto nel film, la guerra mostra sempre il peggio delle persone e non solo i tedeschi commisero atrocità, ossia tutti i popoli all’occorrenza le hanno commesse e possono commetterle, tuttavia il film tratta delle atrocità commesse dai nazisti in Polonia.
Una breve nota sul vestitino rosso o fucsia della bimba ai primi inizi del film e alla fine quando essa è portata via ormai cadavere. Sarebbe dovuto essere un simbolo per l’estrema evidenza di quanto perpetravano i nazisti tedeschi sotto gli occhi di tutti senza che nessun popolo al mondo intervenisse in aiuto del genocidio degli ebrei. A voler essere precisi, l’abito rosso – o fucsia –, nel contesto, non pare propriamente un simbolo per l’evidenza di quanto stava accadendo in Germania e in Polonia e in Europa sotto il dominio nazista, è piuttosto un’allegoria di cui in quanto tale, perché sia compresa, deve essere conosciuto il significato assegnato dal suo ideatore, significato che è arbitrario al contrario di quello intrinseco ai simboli che emergono dall’inconscio su base naturale: un vestitino che va dal rosa al rosso, dal colore femminile per eccellenza al rosso del sangue innocente sparso, il sangue di una futura donna capace di generare vita, la vita degli ebrei uccisa sul nascere dai nazisti. Il fatto che la bimbetta sia biondissima rimanda invece simbolicamente alla mescolanza degli ebrei europei con le popolazioni slave e germaniche in genere connotate da occhi e capelli chiari e alla irrealizzabilità di eliminare le razze cosiddette non ariane, una mescolanza che rende di per sé sciocca l’idea di razza pura o ariana, la grande illusione dei nazisti.
Per concludere le brevi note: un’osservazione sul cappello nero di Itzhak Stern che compare qui e là. Si tratta del cappello nero tipico degli ebrei, che viene portato dal personaggio con la falda abbassata e ondeggiante che ombreggia una parte di volto e di sguardo, un cappello, diversamente dagli altri dello stesso tipo in uso in genere presso gli ebrei con falda rivolta verso l’alto, capace di evocare un’atmosfera di stregoneria e con essa la presenza di poteri esoterici. Un cappello che appare ogni tanto come per magia e che identifica, alla lontana ma non troppo, l’ebreo nella sua fama appunto di mago, di persona dotata in ogni caso di grandi poteri sotto l’apparenza di cittadino qualsiasi, come gli altri, quei poteri che sono stati all’origine di tante credenze sul popolo ebraico in particolare nel Medioevo e motivo in più di persecuzioni, ma anche di particolare considerazione, di timoroso rispetto.
Eccellenti le tecniche cinematografiche utilizzate nel film, in primo luogo l’uso della camera palmare, a mano, per rappresentare le numerosissime scene di concitazione, di disperazione, ad esempio la rappresentazione delle donne che corrono dietro ai camion che portano via i loro bambini. Eccellente la musica extradiegetica di John Williams che accompagna ritmicamente gli spostamenti degli ebrei da un luogo all’altro per essere catalogati o quando devono lasciare le loro case per rinchiudersi nel piccolo ghetto di Cracovia e si potrebbe continuare nell’analisi di tanti dettagli interessanti che esulano però dall’assunto di questo studio per come più sopra annunciato.
Un film che contribuisce più di qualsiasi cronaca alla memoria degli eventi, perché la storia non sia dimenticata, non resti solo una cronaca scarsamente consultata e incapace in tal senso di essere maestra di vita. Ma anche un film che offre una comparazione profonda delle due culture coinvolte nell’olocausto: quella germanico-tedesca, di cui il nazismo appare eminentemente come una degenerazione, quella ebraica presentata in generale come di fine umanità. Un film che, in armonia con un Leitmotiv intrinseco alla visione del mondo di Steven Spielberg, presenta la donna come colei che rispetto ai maschi è capace di più profonda moralità e bontà, di umanità, di migliore disposizione verso la vita – anche la donna di Göth, Majola, pur amando un tale uomo, è più umana di lui.
Rita Mascialino
(Dalla serie di dodici opere dedicate a Rita Mascialino dall'artista friulano MARINO SALVADOR
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